L’Italia che non ricorda la sua lunga epoca dei sequestri di persona

GLI ANNI '70 E '80 ITALIANI SONO STATI CARATTERIZZATI DA UN VERO E PROPRIO FENOMENO CRIMINALE LEGATO AI SEQUESTRI DI PERSONA

 

L’arrivo di Silvia Romano in jilbab con conseguente notizia della sua conversione all’Islam è stato l’incipit di un’altra pagina, l’ennesima, di gogna social e mediatica del nostro paese. Ingiurie, odio, minacce… Tra chi è inconsapevole delle proprie azioni e chi invece consapevolmente e politicamente cavalca il disprezzo e l’indignazione. Sono quelli che si sentono fuori dal coro, liberi di dire tutto ciò che vogliono perché unici possessori della verità.

Mentre la Procura di Milano indaga sul da farsi, data l’enorme mole di contenuti offensivi e minatori all’indirizzo della ragazza, sui social e sui giornali non si contano i dati e le interpretazioni spiattellate per vere. Tutto questo in assenza di fonti sicure, ovviamente. Che poi la ragazza sia tornata dopo 18 mesi di sequestro, risulta inessenziale.

Eppure, il nostro è un paese che più di altri dovrebbe mostrare sensibilità verso le vittime di sequestri. Già, perché questo tipo di reato ha segnato un’importante e dolorosa pagina di storia italiana. Infatti, gli studiosi di criminologia convengono nell’identificare fra gli anni ’70 e ’80 quello che è stato un vero e proprio fenomeno criminale legato ai sequestri di persona. Un fenomeno ampio, complesso che ha interessato organizzazioni differenti mosse da obbiettivi e influenze culturali molto diversi tra loro: da motivi economici di stampo mafioso a motivi politici, passando anche per riscatti sociali.

LA STAGIONE DEI SEQUESTRI: I NUMERI– Stando ai dati del Ministero dell’interno, riportati da Carabellese e Zelano nel libro ‘Il fenomeno dei sequestri di persona in Italia’, dal primo gennaio 1969 al 18 febbraio 1998 in Italia si sono consumati 672 sequestri, per un totale di 694 persone coinvolte. Di questi sequestri, 471 sono avvenuti nel decennio tra il 1975 e il 1985. Dopo di che, il fenomeno è lentamente scemato. Una diminuzione ascrivibile a diversi motivi. In primis al progressivo miglioramento delle Forze dell’Ordine e delle magistrature nel contrastare il fenomeno.  Nel 1991, in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione, fu infatti promulgata un’apposita legge che prevede il sequestro preventivo dei beni appartenenti al sequestrato, al coniuge e ai parenti affini e conviventi per impedire il pagamento del riscatto. Il congelamento dei beni può essere esteso anche ad altre persone, qualora via sia un fondato motivo per pensare che queste possano pagare il riscatto. Un altro motivo è che le associazioni criminali hanno gradualmente abbandonato questa tipologia di reato a favore di attività più sicure e redditizie, come il mercato della droga.

BANDITISMO SARDO, BR E ‘NDRAGHETA– Queste tre organizzazioni sono state sicuramente le protagoniste del periodo. Ognuna di loro agiva con metodi e motivazioni differenti. Le Brigate Rosse, eccetto qualche raro caso, non chiedevano denaro ma agivano in nome di ideali politici e propagandistici, per adempiere alla loro strategia rivoluzionaria.

Una strategia fatta di atti clamorosi che aveva come bersagli figure dello Stato e del sistema capitalista. Come intermediari prediligevano i giornali e telegiornali, perché ritenuti degli ottimi amplificatori per i loro messaggi politici.  Un esempio perfetto del loro modo di agire è certamente il sequestro di Aldo Moro. L’allora presidente della Democrazia Cristiana fu rapito per scongiurare il processo politico di avvicinamento tra il PC e il DC, noto come ‘compromesso storico’, che avrebbe portato alla nascita di un nuovo governo sostenuto da entrambi i partiti.

Attraverso radio, giornali, comunicati, manifesti e foto di Moro resero da subito pubbliche le loro ragioni e le loro richieste: Moro era per loro un simbolo del potere capitalista e imperialista promosso dalla DC, per liberarlo chiedevano uno scambio con alcuni brigatisti arrestati. Non senza polemiche, nel governo prevalse ‘la linea della fermezza’, ovvero quello di non scendere a patti con i sequestratori.

Aldo Moro

Ritrovamento del corpo di Aldo Moro

La vita di Moro non fu risparmiata e così il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di prigionia, il suo corpo fu ritrovato nel bagagliaio di un Renault 4 in via Caetani a Roma. Anche questa fu una scelta con un forte significato simbolico. L’auto venne infatti ritrovata a metà strada tra la sede nazionale del PC in via delle Botteghe Oscure e la sede nazionale della DC in Piazza del Gesù: emblema del fallimento del compromesso storico.

Molto più ‘discreti’ invece i banditi sardi e la ‘ndrangheta mossi da motivi prettamente legati al denaro. Sceglievano i loro bersagli tra chi avrebbe potuto pagare riscatti onerosi.

La ‘ndragheta investiva i soldi dei sequestri per finanziare e promuovere le altre attività criminali dell’organizzazione, ma anche per migliorare l’aspettativa economica delle comunità calabresi, garantendosi la loro gratitudine e dipendenza. Il banditismo sardo, invece, è stata una realtà criminale asistematica e senza una precisa struttura, non riconducibile a un’unica organizzazione.

Nato inizialmente come abigeato, furto del bestiame, il banditismo affonda le sue radici nella cultura del s’apprettu, del bisogno. Una antica cultura risalente ai pastori barbaricini (la Barbagia è una regione montuosa della Sardegna) per i quali non è sbagliato rubare ai ricchi per dare ai poveri. Soprattutto se non c’è spargimento di sangue. In questa cultura il bandito e il pastore coincidono in una figura eroica che si oppone alle ingiustizie e alle oppressioni dello stato centrale.

Le azioni del bandito diventano atti di riscatto e giustizia sociale. La particolarità di questo fenomeno, infatti, è stata che i proventi dei sequestri non furono mai investiti in altre attività, ma rimasero all’interno di questi piccoli clan. Uno dei sequestri più famosi compiuto in Sardegna è stato quello di Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi.

Furono portati in alcuni nascondigli del complesso montuoso sardo del Supramonte e detenuti per quattro mesi fino al 21 dicembre 1979. A liberazione avvenuta, il cantautore non si pose mai in atteggiamento di condanna verso i suoi carcerieri, ma anzi sembrò aver acquisito un senso di pietà e compassione verso una terra culla di antichi desideri di giustizia inespressi.

Non si costituì mai come parte civile nel processo contro gli autori materiali del sequestro, per uno di loro, Salvatore Vargiu, presentò anche una domanda di grazia al Presidente della Repubblica. Si costituì parte civile soltanto nel processo di primo grado per i mandanti del sequestro. La canzone Hotel Supramonte, ispirata appunto all’esperienza del sequestro, suggella bene questo suo ritrovato attaccamento alla vita: “Grazie al cielo ho una bocca per bere e non è facile. Grazie a te ho una barca da scrivere, ho un treno da perdere. E un invito all’Hotel Supramonte dove ho visto la neve”.

Anche la ‘ndragheta, comunque, agiva per motivi legati a tradizioni e usanze antiche. La maggior parte dei sequestrati venivano portati in Aspromonte per un motivo simbolico: riuscire nascondere una persona nonostante la presenza delle Forze dell’Ordine nel luogo che aveva dato i natali all’organizzazione era segno di forza e di prestigio verso il popolo della ‘ndragheta.

IL SEQUESTRO DI CARLO CELADON– Uno dei sequestri più famosi avvenuti per mano della ‘ndragheta è quello di Carlo Celadon, figlio di Candido Celadon, proprietario di una fiorente azienda conciaria. L’uomo, all’epoca diciottenne, detiene un triste primato: il suo è stato il sequestro più lungo della storia italiana. Sequestrato il 25 gennaio 1988 fu rilasciato soltanto il 4 maggio 1990, ben 831 giorni dopo. La ‘ndrina calabrese che lo rapì lo portò in un piccolissimo anfratto, mai precisamente indentificato, dell’Aspromonte. Incatenato alle caviglie e al collo, non aveva nemmeno lo spazio per stare in piedi ed era spesso oggetto di visite da parte di topi e serpenti.

In un’intervista rilasciata a Pablo Trincia nel podcast Buio – Storie di sopravvissuti, Carlo ha raccontato che il suo passatempo era contare i secondi di una giornata. La sfida più difficile- come ha dichiarato- fu quella di non cedere alla disperazione e alla frustrazione. I sequestratori infatti lo avvilivano, facendogli credere che il padre non volesse pagare il riscatto: “Cominciavo a demotivarmi e dire qua non torno più. Ho cominciato ad aver pensieri brutti ed ho dovuto tra virgolette lottare con la testa che è una cosa tremenda quando si mette contro di te”. Il pm Tonino De Vincenzi, anche lui intervistato da Trincia, ha spiegato che congelò i beni della famiglia Celadon ma permise comunque loro di trattare con i rapitori, per cercare di coglierli in flagrante. Ma il primo tentativo di pagamento del riscatto di cinque miliardi di lire, in accordo con la polizia, fallì. Nel blitz vennero arrestate cinque persone ma i soldi sparirono e soprattutto nessuna traccia di Carlo.

Il 2 maggio 1990 fu comunque il giorno decisivo, Candido si recò nuovamente in Calabria con altri due miliardi di lire. Due giorni dopo Carlo viene rinvenuto dalla polizia disteso su un’autostrada, dolorante e debilitato. Carlo negli oltre due anni di prigionia contò più di venti carcerieri ma, esclusi i cinque arresti del primo blitz, soltanto il telefonista che chiamava con il nome in codice Agip fu arrestato. Ma anni dopo e per tutto un altro motivo: un blitz antidroga in Germania.

IL SEQUESTRO DI CESARE CASELLA- Sequestrato il 18 gennaio 1988, lo stesso anno del suo coetaneo Carlo Celadon, Cesare Casella detiene il record di secondo sequestro più lungo della storia italiana con 743 giorni di prigionia. Il giovane di Pavia, figlio di un proprietario di un concessionario di auto, fu rilasciato il 30 gennaio 1990, fu anch’egli rapito dalla ‘ndragheta e portato in Aspromonte ma la sua esperienza- almeno come ha sostenuto lo stesso protagonista- fu decisamente meno drammatica rispetto a Carlo Celadon.

Come recentemente dichiarato in un’intervista per Rivista Studio, Casella ha affermato infatti di non essersela passata malissimo nonostante sia stato costantemente incatenato: passava le sue giornate tra caffè, sigarette, stretching e letture di quotidiani e riviste. Qualche volta giocava anche a carte con i suoi carcerieri. A dargli forza il suo temperamento ribelle e il ricordo di un amico: “Dopo aver truccato motorini, guidato macchine senza patente, non potevo crollare così miseramente. Pensavo a un mio amico morto in un incidente. Pensavo: meglio quello o questo?”. Spavaldo anche nel momento del ritorno a casa, la sua prima dichiarazione ai giornalisti fu: “Sto benissimo, domani vado in palestra.

Dopo un primo riscatto di un miliardo di lire pagato dalla famiglia nell’89, la polizia riuscì a mano mano a stringere il cerchio intorno ai rapinatori, arrestandoli e riuscendo a liberare Casella e recuperare i soldi.

Angela Casella

Il suo fu comunque un caso che ottenne un grande clamore mediatico, per via della mamma Angiolina Montagna, soprannominata dai giornali “Mamma-Coraggio”. Insieme ad un cronista de La Provincia pavese, la donna manifestò per la liberazione del figlio in alcuni paesi della Locride come Platì, Ciminà e San Luca. Le sue proteste fecero il giro del mondo, tra incatenamenti in piazza, incontri con i parroci e raccolte firme.

Subito dopo la liberazione, anche Cesare è oggetto di grande attenzione da parte dei media. Lui e la mamma scrissero delle rubriche e risposero alle domande sul settimanale Visto. Dalle sue risposte venne tratto un libro, 743 giorni lontano da casa. Il ragazzo iniziò ad essere ospite di diversi programmi televisivi, anche da Bruno Vespa e da Raffaella Carrà. Dalla sua vicenda è stato anche tratto un film: Liberate mio figlio del regista Roberto Malenotti.

Cesare Casella si stufò di questa celebrità dopo poco tempo, stanco dei ‘privilegi’ che il sequestro gli aveva conferito. Non a caso alla domanda “Il momento in cui ha cominciato a stancarsi?” ha risposto così: “Ricordo una sera al mare. Dovevamo andare in discoteca, e ci ferma la polizia. Controllo documenti, poi un poliziotto mi riconosce e, mentre gli altri vengono trattenuti, a me pacca sulle spalle e benedizione: “Casella, lei vada a divertirsi”.

di Angelo Baldini

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