L’Iitalia non è un paese digitale

L'emergenza coronavirus ha messo a nudo le diseguaglianze digitali nel Paese e tra gli studenti, in un processo che rischia di accelerare l'esclusione sociale per molti giovani

Quando a febbraio è esplosa la pandemia, le prime a chiudere sono state le scuole, di ogni ordine e grado: otto milioni e mezzo di bambini e ragazzi si sono ritrovati a casa, prima senza lezioni e poi alle prese con la didattica a distanza. Neanche il tempo di tornare in classe con il nuovo anno scolastico che la recrudescenza dei contagi ha indotto il governo a imporre nuove chiusure: il DPCM 25 ottobre 2020 ha imposto la didattica a distanza al 75% per tutte le scuole superiori, quasi tre milioni di studenti.

Il successivo provvedimento firmato il 4 novembre ha portato la DAD al 100% in quasi tutte le scuole superiori italiane ed esteso il provvedimento – nelle zone rosse – anche alle scuole medie. L’emergenza ha costretto il sistema scolastico a sperimentare l’insegnamento digitale, scoprendosi impreparato e se da un lato la necessità di garantire le lezioni ai ragazzi ha avuto il merito di avviare sperimentazioni mai tentate prima, dall’altro ha reso più profonde ed evidenti le diseguaglianze all’interno del Paese, in un processo che rischia di accelerare l’esclusione sociale per molti giovani.

Una scuola che parla digitale ma fa analogico

Che il digitale sia destinato ad assumere un ruolo sempre più importante nelle nostre vite è cosa nota. Per questo, è stato introdotto nel nostro ordinamento il concetto di ‘cittadinanza digitale’, intesa come l’insieme di diritti e doveri che regolano i rapporti tra cittadini e Pubblica Amministrazione attraverso le nuove tecnologie. 

Nel 2015 la Carta della cittadinanza digitale, introdotta dall’articolo 1 della legge n. 124, sanciva il diritto di cittadini e imprese, anche attraverso l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione  e della comunicazione […] di accedere a tutti i dati, i documenti e i servizi di  loro interesse  in modalità digitale” e impegnava il Governo ad adottare una serie di provvedimenti volti, tra l’altro, a semplificare le condizioni di esercizio dei diritti e l’accesso ai servizi d’interesse dei cittadini e a implementare la connettività per i servizi pubblici che lo richiedessero, compreso quello scolastico.

Nello stesso anno il MIUR assumeva il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD), un documento d’indirizzo incardinato nella riforma scolastica conosciuta come “La Buona Scuola”.

La Buona Scuola - Miur

Dalla pagina Facebook del MIUR

Di ‘scuola digitale’, in realtà, si parla da ben più tempo: almeno dal 2008, quando nelle scuole sono state installate le prime LIM, le Lavagne Interattive Multimediali. A queste erano poi seguite varie altre azioni, volte a sperimentare percorsi innovativi ed estendere la dotazione tecnologica degli istituti. A sette anni dall’inizio di questo processo, il PNSD si proponeva di sviluppare, attraverso 35 azioni coinvolgenti tutti gli aspetti dell’insegnamento, un’azione trasformativa dell’istruzione italiana attraverso l’innovazione e l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) per l’insegnamento, l’apprendimento e la gestione scolastica.

L’evoluzione digitale della scuola, però non sembra essere decollata, a partire dai problemi di connessione. Secondo l’edizione 2020 dell’Education and Training Monitor, il rapporto annuale con cui la Commissione Europea monitora lo stato del sistema d’istruzione negli Stati membri, sebbene quasi tutti gli istituti abbiano un collegamento Internet (il 95,4%), solo il 26,9% ha una connessione ad alta velocità, ben al di sotto della media UE (47%).

Non solo: la dotazione tecnologica cambia di regione in regione e di scuola in scuola: secondo Openpolis, che ha analizzato i dati inseriti dagli istituti sul portale ‘Scuola in chiaro’, solo la metà degli istituti dichiara di avere almeno un device (con una media di 5,7 pc e tablet ogni 100 alunni).

In Lombardia, la regione in testa alla classifica, il dato raggiunge appena il 59%; mentre in Sardegna le scuole attrezzate in questo senso scendono al 34%. Pochi pc insomma, e di solito relegati alle aule d’informatica. La densità di devices per alunno, inoltre, è maggiore nelle scuole secondarie rispetto al primo ciclo di studi (scuole elementari e medie); tra le scuole secondarie, aumenta per gli istituti tecnici, che hanno un rapporto pc-studenti quasi doppio, in media, rispetto ai licei.

Tablet

Alla scarsa dotazione digitale si aggiunge la carenza di competenze digitali del corpo docente. Certo, la situazione negli anni è andata migliorando: aumentano i docenti che aderiscono alla formazione continua sulle TIC per l’insegnamento (il 53% nel 2013, il 68% nel 2018) e anche coloro che consentono agli studenti di utilizzare strumenti digitali per progetti e lavori in classe (il 30% nel 2013, il 46% nel 2018).

Ma la strumentazione digitale non è entrata nel corredo scolastico e non viene utilizzata per l’insegnamento: è uno strumento compensativo da utilizzare in pochi, esclusivi casi, come i momenti di laboratorio, o per facilitare gli studenti con problemi di apprendimento; mentre nella quotidianità dell’insegnamento prevale un modello d’insegnamento frontale e cartaceo.

Il coronavirus porta in evidenza il divario digitale

L’emergenza Covid-19 ha trasformato la visione scolastica del pc e della rete, facendone strumenti indispensabili per l’insegnamento. Ma ha sollevato anche il problema del possesso e dell’utilizzo individuale di questi dispositivi, rendendo evidenti una serie di diseguaglianze economico-sociali fra gli studenti. Disuguaglianze che adesso si ripercuotono sulla possibilità, per alcuni, di raggiungere una piena cittadinanza digitale.

Prima della pandemia, infatti, per le famiglie non era necessario avere un pc o tablet per ogni componente – e del resto, come si è detto, i device digitali non entravano nel corredo scolastico. La didattica da remoto ha di fatto penalizzato le famiglie con più figli in età scolare e quelle socialmente ed economicamente già svantaggiate. Secondo uno studio dell’Istat  che ha approfondito gli spazi e la dotazione tecnologica dei minori e delle famiglie negli anni 2018 e 2019, solo il 7,7% delle famiglie mediamente istruite (in cui almeno un componente è laureato) non dispone di un computer o tablet, mentre questa quota cresce di molto se si considera il dato nazionale.

Lo studio ha anche rilevato che, fino al 2019, ben 850 mila ragazzi tra i 6 e i 17 anni non avevano un computer o un tablet a casa, e che 470 mila di questi risiedevano nel Mezzogiorno.

Certo, la maggior parte degli studenti ha un device in casa, ma la possibilità di svolgere didattica a distanza è condizionata da molti altri fattori, come avere un pc a propria disposizione, disporre di uno spazio da dedicare allo studio e avere una connessione veloce.

In molte famiglie queste condizioni non sussistono, o non del tutto: quasi il 60% degli studenti deve infatti condividere il pc con gli altri componenti famigliari che possono avere le stesse necessità; mentre quattro minori su dieci vivono in condizioni di sovraffollamento abitativo.

Didattica digitale

Inoltre, la connettività diminuisce quanto più ci si sposta dalle grandi città ai comuni periferici e ultraperiferici, quelli cioè che distano oltre 40 minuti dai servizi di istruzione, sanità e trasporto. Il rapporto di Openpolis sulle disuguaglianze digitali segnala che più di un milione di minori vivono in comuni dove nessuna famiglia è servita da una connessione veloce.

Ma il digital divide non riguarda solo la disponibilità di strumentazione. Intanto i dati raccolti da Openpolis mostrano che gli studenti provenienti da famiglie socialmente ed economicamente svantaggiate fanno un utilizzo diverso della rete rispetto ai loro coetanei, orientato più al gioco individuale e meno all’informazione o alla comunicazione.

Inoltre, questo fenomeno si innesta in una situazione generale di scarsa alfabetizzazione digitale. Sebbene l’essere nati nell’era di internet abbia valso alle  nuove generazioni l’appellativo di ‘nativi digitali’, questo non basta per garantire lo sviluppo di competenze comunicative, di  problem solving e la capacità di manipolazione dei contenuti.

Paradossalmente,  i giovani italiani mostrano un livello di competenze digitali molto basso: dei ragazzi tra i 6 e i 17 anni meno di uno su tre presenta alte competenze digitali; il 3% non ha alcuna competenza digitale, mentre circa i due terzi presentano competenze digitali basse o di base.

La sfida della scuola durante (e dopo) la pandemia

La pandemia ha acceso i riflettori su queste diseguaglianze e ha spinto le istituzioni a investire nel progetto di digitalizzazione del Paese. A livello nazionale, il decreto Cura Italia ha stanziato 85 milioni di euro per la digitalizzazione scolastica;  70 dei quali per dotare di dispositivi digitali in comodato d’uso gli studenti in difficoltà; 10 per le piattaforme necessarie alla didattica a distanza;  5 per la formazione dei docenti. 

A questi si aggiungono gli 80 milioni del bando del Piano Operativo Nazionale del Miur finalizzato all’acquisto di pc, tablet e dispositivi per la connessione internet nelle scuole elementari e medie e diverse misure “bonus” disposte a livello regionale per l’acquisto di dispositivi. Di digitalizzazione, inoltre, si è parlato anche in relazione alle risorse destinate all’istruzione in seno al Recovery Fund. 

Basterà questo dispiego di risorse ad arginare il divario digitale e quello sociale da questo acuito? Servirà del tempo per valutare gli effetti delle nuove misure; ma è certo che, per funzionare, è necessario un cambio di paradigma nel sistema scolastico italiano.

A questo proposito, nel mese di maggio è nato il manifesto “Un tablet in ogni zaino”, promosso da un gruppo di dirigenti scolastici. La proposta è quella di non abbandonare il pc e il tablet, conclusa l’emergenza, ma di includerlo definitivamente nel corredo scolastico degli studenti, incentivandone l’utilizzo individuale. Scrivono i promotori del manifesto sul sito Agenda Digitale: “Con le piattaforme cloud, è possibile estendere la scuola ‘oltre le mura’. Non sostituirla, perché tutti vogliamo fortemente rimanere nelle aule in cui siamo appena rientrati, ma integrarla e ‘continuarla’: all’aula fisica si affianca l’aula virtuale”.

 

La vita economica, sociale e politica moderna si svolge in ambienti digitali complessi: per partecipare pienamente alla comunità, come cittadini consapevoli, avere un pc e una connessione veloce è necessario, ma non basta. Saper utilizzare la rete in modo corretto e critico costituisce una competenza civica di base, come saper leggere, scrivere e fare i conti. Proprio quest’anno è stata introdotta l’educazione civica come materia di studio nelle scuole: ma crescere cittadini oggi significa anche garantire a tutti un’alfabetizzazione di base che sappia approcciarsi agli strumenti e ai linguaggi delle nuove tecnologie. Senza questo passaggio, il rischio è quello di dividere la comunità tra cittadini di serie A e serie B: i primi a proprio agio in un ambiente digitale e tecnologico, i secondi esclusi dai processi innovativi e per questo più a rischio di impieghi precari, disoccupazione e marginalità sociale.

 

di Jennifer Riboli

 

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