Quante morti serviranno ancora?
Stiamo diventando dei drogati di tragedie. Ormai neanche la morte di un bambino durante l'attraversata dalla Libia ci sconvolge?
È l’alba del 12 novembre, un giovedì. Il giovedì comincio lezione alle undici, punto quindi la sveglia alle nove, con fatica mi alzo, mi lavo e scendo in cucina a prepararmi la colazione. Mentre il pane abbrustolito sfrigola e il bollitore fischia, il mio braccio, ancora intorpidito, cerca disperatamente di aprire quel dannato vasetto di marmellata che durante la notte sembra essersi irrimediabilmente saldato al maledetto coperchio. Mi arrabbio, ma dopo qualche tentativo riesco finalmente ad aprire lo scrigno e a finire la mia – più che meritata – colazione.
È il 12 novembre, un giovedì. Non siamo più in un modesto appartamento di provincia ma in un luogo ben più infausto. A circa 30 miglia a nord delle coste libiche di Sabratha, il mare è in tempesta e non serve neanche immergerci la mano per capire quanto è gelido. Benché sia così freddo e burrascoso, un gommone con a bordo un centinaio di persone salpa dalla costa africana.
La bussola punta a nord e navigare attraverso il pelago è del tutto inevitabile. Donne e uomini, grandi e piccini si apprestano a intraprendere il viaggio più importante della loro vita, tra di loro c’è anche una madre che porta con sé il figlioletto Joseph di appena sei mesi.
La zattera stracolma di persone non può sopportare a lungo le violente onde, così si rompe liberando il carico che, in preda alla disperazione, annaspa alla ricerca di un appiglio a cui aggrapparsi per non morire affogato. Anche la madre di Joseph e suo figlio tentano lo stesso ma la confusione è tanta e il mare non sembra accordare alcuna tregua.
Arrivano i soccorsi, la nave umanitaria Open Arms cerca di distribuire più salvagenti possibile ma, nonostante l’intervento angelico dei volontari, non tutti riescono a salvarsi. Tra le tante grida si distinguono quelle della madre che, dopo essere stata portata in salvo, si agita e invoca suo figlio: “Where’s my baby, I loose my baby…“, mentre il bambino di sei mesi viene trascinato sulla nave quando è ormai troppo tardi. In tutto le vittime salgono a sei mentre i sopravvissuti vengono scortati sulla vicina isola di Lampedusa.
Mezzogiorno è passato ormai da un’ora e le lezioni del mattino sono terminate. Durante la pausa pranzo, come solito, accendo la radio per ascoltare il notiziario e tra le tante news, che sto passivamente ascoltando, vi è anche quella di un naufragio avvenuto proprio quella mattina al largo della Libia, sono morte sei persone tra cui un bambino di sei mesi. Sarò sincero nel dirvi che la mia reazione all’ascolto di quella tragedia non si avvicinò neanche ad un leggero rammarico, bensì, con cinismo smisurato, continuai a mangiare come se il giornalista avesse appena annunciato i vincitori degli Oscar.
Ritengo, senza timor di smentita, che questo breve racconto autobiografico non sia purtroppo un caso isolato. Credo che molti lettori potranno facilmente immedesimarsi. Ma cosa porta in noi tanta insensibilità e noncuranza? Quali sono i motivi per cui, ormai, neanche di fronte alla morte di un bambino così piccolo riusciamo a provare compassione? Così come un drogato si vede costretto ad aumentare la dose per sorbire lo stesso effetto, anche noi sembriamo assuefatti dai continui racconti di guerra, povertà, immigrazione e morte che ogni giorno occupano una fetta consistente delle rassegne stampa.
Stiamo davvero diventando dei drogati di morte? Chiaramente la provocazione sta nel fatto che è abbastanza ipocrita pensare di reagire alla morte di un estraneo come fosse quella di un nostro caro, altrimenti dovremmo piangere e sentirci a pezzi ogni giorno, ed è evidente che non può essere questa la soluzione. L’assuefazione è un processo naturalmente presente negli esseri viventi. Così come un microfono rileva sempre un rumore di fondo, anche i nostri cinque sensi – le nostre periferiche di input – captano costantemente degli stimoli che il nostro cervello riconosce come ronzio di sottofondo, evitando di curarsene.
Il problema però si presenta quando un fatto rilevante viene scambiato per rumore di fondo. Così come è importante sentire dolore quando ci facciamo male, è altrettanto importante continuare a indignarsi e non restare indifferenti di fronte a eventi drammatici.
Ciò che sconvolge ancor di più dell’insensibilità, che pur essendo grave rimane un processo spontaneo, è piuttosto la ferocia con cui alcuni soggetti commentano i fatti terribili di cronaca sopra citati. Le orribili parole – non più spontanee, ma intenzionali – che vengono usate per apostrofare questi eventi e le persone che li vivono sono davvero inaccettabili. Da chi continua a sostenere che “l’Italia non può accogliere il mondo intero” e quindi preferisce sequestrare decine di persone su una nave per settimane, chi invece ribadisce che “non scappano da nessuna guerra” e perciò non hanno alcun diritto di venire sul nostro paese. Alcuni addirittura esultano sui social nel vedere esseri umani morire in mare, oppure ancora più disarmanti sono le parole che imputano alla povera madre la colpa della morte di suo figlio Joseph.
Vi confesso cari lettori che trovare parole poco offensive per descrivere “persone” capaci di parole simili è veramente un’impresa ardua. È d’altronde necessario, per non scadere nel medesimo turpe linguaggio, provare a distinguersi anche con l’utilizzo di un lessico differente. Come recita una famosissima canzone di Bob Dylan: “Quante morti serviranno ancora, prima che lui capisca che troppe persone sono già morte?”. La guerra del Vietnam è finita da un pezzo ma questo brano risulta più attuale che mai. Di fronte a catastrofi simile non dovrebbero prevalere gli egoismi, ma solo il rammarico e la voglia di impedire che tutto questo possa riaccadere. Invece ognuno pensa solo al suo orticello, i giornali continuano ad usare titoli provocatori e la dis-umanità prevale all’umanità.
Il nemico non può essere l’immigrato, se mai lo è chi spinge i popoli a migrare: povertà, fame, guerre e la più totale mancanza di libertà democratiche. Perché, volendo rispondere ad un commento precedente, non serve che il paese da cui scappi lo straniero sia in stato di guerra, secondo l’articolo dieci della nostra costituzione infatti basta che: “Sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana […]”.
Ora, mi dovete dire, in quale paese africano sono garantite le stesse libertà democratiche garantite dalla nostra Costituzione? L’incresciosa colpevolizzazione della madre per la morte del proprio figlio rasenta dopo tutti l’apatia e il cinismo più totale. Quale genitore non rischierebbe di tutto pur di evitare al figlio una vita di stenti e miseria? Ma ormai funziona così: fanno il titolo provocatorio, noi ci arrabbiamo, loro rispondono che è fattuale e intanto hanno ottenuto ciò che volevano, tanta visibilità che evidentemente non riescono ad ottenere scrivendo articoli sensati, per cui si riducono a questo divertente – solo per loro – teatrino.
Se c’è una cosa che odiava Gramsci erano gli indifferenti e su questo concordo appieno. Inoltre è bene dissentire da ogni forma di “complottismo sorosiano”, dei grandi disegni della finanza internazionale che, francamente, lasciano il tempo che trovano. Sicuramente vi è una forte responsabilità dei paesi benestanti riguardo all’impoverimento e alla destabilizzazione di paesi africani e mediorientali, ma non per questo deve esserci un “disegno prestabilito”. Per rendere il compito più semplice e spontaneo serve un piccolo sforzo di immaginazione.
“Immaginate un modo senza nazioni, non è difficile. Nulla per cui uccidere o morire, ed anche alcuna religione. Immaginate tutta la gente vivere la vita in pace. Si potrebbe dire che io sia un sognatore, ma io non sono l’unico. Spero che un giorno vi unirete a noi, ed il mondo sarà davvero unito” (Imagine, John Lennon).
di Michael Nova
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