The Queen’s Gambit, lo scacco matto di Netflix

La nuova mini-serie ambientata nel mondo degli scacchi che è sulla bocca e sugli schermi di tutti

Alla fine di ottobre, Netflix ha presentato l’ultima sua creazione, diretta da Scott Frank, che in brevissimo tempo ha conquistato il pubblico di tutto il mondo. Distribuito in ben novantadue paesi, La regina degli scacchi è riuscito a raggiungere la Top 10 di tutti questi, risultando la miniserie Netflix dall’esordio più fortunato – un traguardo simile era stato raggiunto solo da Tiger King – che rientra però nel genere della docu-serie.

La regina del titolo, interpretata da Anya Taylor-Joy, è Elizabeth Harmon, una bambina che a dieci anni si salva dall’incidente suicida della madre e finisce in un orfanotrofio. In questo edificio oscuro, la giovanissima Beth trova sollievo alla sua angoscia grazie a due cose: i farmaci ansiolitici e, sorprendentemente, gli scacchi. Ad insegnarle questo gioco è il bidello della scuola, che lei ricorderà con affetto anche agli apici della sua brillante carriera. Una volta adottata, inizierà per Beth una vita segnata da affetti instabili, crisi psicologiche, vestiti alla moda e soprattutto tante, tantissime partite a scacchi.

Prima di cominciare, attenzione perché questa recensione contiene qualche spoiler senza tuttavia rovinarvi dalla visione di questa serie lodevole.

“Si parla solo del fatto che sono una ragazza”

Dopo la sua prima vittoria in un torneo di scacchi, in cui batte il campione dello Stato, il talento di Beth Harmon risulta chiaro a tutti. Il suo successo è a dir poco sorprendente, in quanto si trattava di una giocatrice senza esperienza, che non conosceva nemmeno le regole per partecipare ad un torneo, ed era riuscita senza difficoltà a battere avversari rinomati nel mondo degli scacchi. Eppure, a sbalordire ancora di più, è il fatto che a vincere era stata una ragazza. 

La serie si sofferma molto su questo contrasto, tra un ambiente antico, tradizionale e soprattutto maschile come quello degli scacchi e un personaggio giovane, problematico e femminile come quello di Beth. Tant’è che rileggendo la sua prima intervista importante, lei con una punta di delusione fa notare alla madre e al pubblico: “Si parla solo del fatto che sono una ragazza”. Non è certamente un traguardo trascurabile ma, come ci ricorda, il suo genere non può e non deve essere la prima cosa da notare, né quella che fa notizia: il suo straordinario talento è abbastanza.

Infatti, la mossa vincente di Netflix sta proprio nel non menzionare costantemente l’avanguardia dell’avere una donna campionessa, e questo perché al centro della serie, come al centro del mondo della protagonista, ci sono gli scacchi, e tutto il resto è secondario. Anzi, lo spettatore, così come Beth stessa, sembra ricordarsi solo a tratti che a battere campioni di stato e a guadagnare migliaia di dollari è, sorprendentemente, una giovane donna. La scacchiera ed i suoi pezzi finiscono per affascinare il pubblico così tanto da non pensare alle implicazioni sociali, così come quelle politiche e religiose.

“Lo vedi ora? O dovremo finirlo nella scacchiera?”

La sorpresa di questa seria è senza dubbio quella di riuscire a rendere un mondo come quello degli scacchi incredibilmente affascinante. E lo fa senza dover rinunciare né all’aspetto tecnico del gioco, né allo sviluppo del personaggio di Beth. 

Infatti, la maggior parte delle scene contiene una scacchiera, che sia disegnata su un libro, immaginata o posta su un tavolo, e mosse che la maggior parte del grande pubblico non ha mai sentito, ma che non riesce a scordare: la difesa siciliana, il gambetto della donna…

La regina degli scacchi contribuisce senza’altro a far conoscere di più un gioco che le nuove generazioni sentono lontano, e ci riesce anche grazie alla sensualità di cui la serie è impregnata. A partire da Beth, che pur essendo una giocatrice seria non rinuncia mai a presentarsi con abiti fascinosi ed eleganti, scelti con cura la sera prima, e con quel trucco ammaliante tipico degli anni Sessanta. I suoi interessi romantici sbocciano e si sviluppano in contesti di gioco, ed è proprio basandosi su di esso che lei approva o boccia la persona che ha accanto.

Non solo, nella sua relazione più lunga, quella con il campione Benny Watts, interpretato da Thomas Brodie-Sangster, la chimica tra i due personaggi si sviluppa proprio a colpi di battutine a sfondo scacchistico e di partite. 

“Giochiamo”

E’ evidente che il punto di forza della serie è la protagonista: è un personaggio complesso ma ben costruito, e interpretato con grande talento. Elizabeth Harmon è un fenomeno, ma non è perfetta: dietro alla sua passione per gli scacchi nasconde una malsana ossessione per la vittoria, e dietro il suo genio c’è un po’ di follia. 

Fin dalla prima puntata, Beth viene mostrata come una bambina brillante, ma anche intrappolata negli angoli più bui della sua testa, che la portano a rifugiarsi in comportamenti autodistruttivi, come la dipendenza da droghe e da alcool. Ogni episodio rivela diversi pezzi del suo passato, tutti incentrati sulla figura della madre e la sua malattia mentale. Più si va avanti, più queste scene si fanno lunghe, e più la protagonista peggiora, avvicinandosi sempre più alla malattia della madre. 

Il terrore di impazzire e la profonda solitudine sono parte di ciò che la rende umana. Tanto vince sulla scacchiera, quanto perde nella vita: la madre, l’amore, il controllo.

Spesso, le protagoniste femminili di serie iper popolari come questa rappresentano un modello a cui ispirarsi, o propongono valori e ideali educativi, ma La regina degli scacchi costituisce una sana eccezione. Non ha remore nel mostrare che tutti, anche Beth Harmon, possono fare una mossa sbagliata o perdere una partita: l’importante è continuare a giocare. 

 

di Teresa Tonini

 

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