Una vita 45 giorni per volta: questo è il 2020 di Patrick Zaki

Il giovane ricercatore egiziano resta in carcere: 10 mesi trascorsi tra decisioni continuamente rinviate

Dal profilo Facebook di Fondazione Verdi

Andate a Bologna. Sa essere bella anche quando nessun’altra città saprebbe farlo. Camminate per il centro: c’è odore di brodo, a volte, qualcuno che strimpella sotto i portici e vetrine di tortellini chiusi al mignolo. Se in questo vagare vi capita, passate per Piazza Verdi. Non è focus del turismo quello, no. Fa parte della zona universitaria, è un luogo di giovani e di movida. O quanto meno lo era prima del Covid.

Ma se arriverete fino lì troverete, appeso a un palazzo, un grande manifesto giallo con una scritta nera. Magari potessimo essere poetici  pensando a un richiamo a De Andrè, intruso nella patria di Dalla. Invece no. Quel cartello verticale, un po’ sbiadito e consumato dal sole, è in molte altre città italiane e in ciascuna di esse fa male: “VERITÀ PER GIULIO REGENI”, recita. La campagna di Amnesty International, però, a Bologna fa più male che altrove. Non solo perchè Regeni è un groppo in gola non ancora digerito (e che probabilmente mai si digerirà), ma perchè a Bologna se leggi “Giulio” pensi “Patrick”.

Patrick Zaki lo conosciamo tutti. E tristemente. Ricercatore egiziano di 27 anni iscritto all’Università di Bologna, frequentava il master Gemma in studi di genere e della donna. È stato arrestato in Egitto il 7 febbraio scorso con l’accusa di propaganda sovversiva. Partito per far visita ai genitori a Mansura, città natale, non è più tornato.

Fermato all’arrivo in aeroporto dall’Agenzia di sicurezza internazionale, è stato bendato e trattenuto diverse ore prima di essere trasportato alla sede nazionale di Mansura. Lì, screenshot della sua pagina FB alla mano, si è insinuato che fosse coinvolto in tentativi di sovvertimento dell’ordine, che avesse pubblicato notizie false, che avesse minacciato la sicurezza pubblica. E una ingenuamente pensa che in Egitto i terroristi veri dovrebbero riconoscerli, che stupida. Tant’è che Patrick, inizialmente trattenuto con un fermo di 15 giorni, è ancora là: ancora in carcere.

Rinvio: se questa vicenda potesse essere rappresentata da un’unica, semplice parola sarebbe questa. Ad aprile la Corte egiziana ne aveva già concessi 7 per la sentenza che doveva stabilire la scarcerazione del ragazzo. La pandemia certo non ha aiutato. E ancora da a luglio, a novembre: ogni udienza un rinvio a giudizio.

L’ultima proprio l’altro ieri, il 07 dicembre. L’ennesima. Altri 45 giorni in carcere, poi se ne riparlerà. Come se la libertà potesse essere procrastinata senza scadenza. Da subito l’Egitto non si è mai mostrato come sovrano indiscusso di Collaborazilandia, ma i più cinici (tipo me? Naaa) non si aspettavano nulla di diverso. Anzi, una delle prime cose che l’ambasciata del Cairo ha ritenuto opportuno specificare è che Patrick è egiziano. Punto. Come a dire Questo mò è dei nostri eh, non rompete i coglioni anche sta volta.

Solo che in Egitto le persone spariscono. Lo aveva già denunciato un rapporto del 2016 di Amnesty International Italia: studenti, attivisti politici, manifestanti anche minorenni…puf! Scomparsi nel nulla. Organizzazioni non governative locali parlavano di circa tre sparizioni forzate al giorno con detenzioni durate mesi e torture. E visto che veder scomparire una persona non è esattamente come smarrire un calzino in lavatrice – quelli tra l’altro li ritrovi sempre -, qualcuno si è allarmato. Anche se Patrick è egiziano, guarda un po’. Se uno studente non torna a frequentare, se un collega non riprende le lezioni, se un inquilino non occupa casa, se il ragazzo che vedevi sempre al supermercato non fa più la spesa te ne accorgi. Sì, te ne accorgi anche se non è italiano. Eccome.

L’Egitto però ha alzato un muro: niente interferenze internazionali. Un Paese in cui l’omosessualità è ancora un reato e nel quale centinaia di persone vengono sequestrate per ostruzionismo al regime: questo è lo stesso Egitto con cui l’Italia, dopo il caso di Giulio Regeni, ha intensificato i rapporti. Sia sul piano militare che su quello energetico.

A giugno era addirittura arrivato il via libera da Roma per la vendita di due fregate militari Fremm al regime egiziano. Un affare che si vociferava ammontasse a circa 1,2 miliardi di euro. Non proprio du spicci. Gli scettici non sono mancati. Qualcuno voleva una prova di forza contro quel Cairo che mai ha collaborato nella ricerca dei colpevoli dell’omicidio Regeni. Beh, sono rimasti delusi. Di moti d’orgoglio, di rivendicazione o di giustizia se n’è visti pochi, ma qualcosa dopo il sequestro di Patrick, da qualche parte, si è mossa.

Forse è stato per Giulio: per quell’offesa che un omicidio impunito e troppe volte svalutato porta obbligatoriamente con sé. Forse per quel precedente che ora c’è e non dovrà ripetersi. Qualunque sia il motivo, la vicenda di Patrick si è imposta immediatamente nell’interesse collettivo e internazionale. Giulio è stato perso: in un’omertà nauseante, con azioni diplomatiche al limite del ridicolo, con insabbiamenti e indagini mai davvero degne di essere definite tali, Giulio è stato perso. Patrick invece è ancora là, nel limbo delle carceri egiziane certo, ma è ancora là.

Numerosi interventi alla Camera del Ministro degli Esteri Di Maio hanno conferito priorità al caso. Non si sa bene quanta, ma tant’è. La scarcerazione è stata chiesta per motivi umanitari e pare che l’ambasciatore italiano in Egitto (che chissà perchè è ancora là) stia facendo un grande lavoro di sensibilizzazione locale e internazionale. Il procuratore dell’UE era presente all’udienza del 07 dicembre, così come diplomatici tedeschi, olandesi e canadesi. Perfino Scarlett Johannson ha diramato un video di sensibilizzazione in favore della scarcerazione di Patrick. Il mondo è stato attenzionato e guarda al Cairo, ma per adesso non sembra fare molta differenza.

Non c’è stata nessuna pandemia per Zaki, nessuna sconfitta di Trump, nessun’Italia semaforica. Il giovane ricercatore ha perso l’anno che nessuno avrebbe voluto vivere, ma chi farebbe a cambio? Per chissà quale strana coincidenza, prima delle urla dai balconi e degli hashtag in tendenza, c’è stato un altro “Andrà tutto bene” a inaugurare il 2020. Il 10 febbraio, ben prima che il Covid entrasse nella quotidianità italiana, la street artist Laika ha ritratto Giulio con Patrick: un abbraccio e una promessa. L’opera, realizzata vicino alla sede dell’ambasciata egiziana a Roma, è stata rimossa appena quattro giorni dopo. Doveva essere davvero minacciosa…Fortunatamente la promessa no, quella c’è ancora: “Stavolta andrà tutto bene”.

Speriamo, non aspettiamo altro.

di Bianca Trombelli

 

Scrivi un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*