Tra danza e scrittura: intervista all’autore di “La forza di chi non è solo”

A tu per tu con Alessandro Giaquinto, il ballerino professionista che si è 'lanciato' sulla scrittura di un romanzo che parla d'amore

Dall’esecuzione della coreografia in scena all’espressione attraverso la scrittura: questo è Alessandro Giaquinto. Di origine emiliana, lascia Scandiano, in provincia di Reggio Emilia e si traferisce a Stoccarda per completare gli studi della sua grande passione, la danza. Consegue il diploma alla John Cranko Schule e diventa ballerino professionista presso lo Stuttgart Ballet. Nel maggio 2020 esprime la sua creatività attraverso la forma d’arte della scrittura e pubblica il suo primo romanzo, “La forza di chi non è solo”

A ParmAteneo racconta il suo percorso pieno di emozioni e forza di volontà in un’intervista a tu per tu: una fonte di motivazione e incoraggiamento per chi insegue un grande sogno.

Come e quando è nata la passione per la danza? E perché proprio questo genere?

La passione della danza è nata in un modo a me sconosciuto, perché ero troppo piccolo per ricordarmelo. Ho solo avuto la sensazione fin da bambino di voler ballare. Ho insistito molto con mia madre, ma per vari anni non ha voluto portarmi a fare lezioni. Poi ha visto quanto insistevo, e ha iniziato a pensare “magari non è solo un capriccio”.

All’età di 10 anni sono andato a vedere una lezione in una scuola privata di Reggio Emilia. Poi ho esternato il desiderio di voler partecipare così ho fatto una settimana di lezioni. Da lì ci siamo resi conto tutti che era ed è una cosa che mi rende felice.

Mi sono diplomato come ballerino classico. I miei studi a Reggio Emilia si sono incentrati sulla danza contemporanea e ora sono un ballerino classico in una compagnia con un repertorio molto vasto di danza contemporanea.

Foto dal profilo Instagram di Alessandro Giaquinto

In un contesto sociale che demonizza la figura dell’uomo come ballerino, quanto è stato difficile decidere di intraprendere questa carriera? Ha ricevuto l’appoggio della tua famiglia o delle persone care?

Mia madre non era d’accordo perché lei conosceva bene il mondo della danza e sapeva quanto fosse duro come mestiere. Aveva paura che non fosse per me, che non fossi dotato, che non potessi farcela in questo ambiente e che avrei provato una grande frustrazione. Dal momento in cui ho iniziato, però, ho sempre avuto l’appoggio delle persone care.

Trovo che l’ignoranza degli stereotipi legati alla figura del ballerino provenga da fuori il contesto della danza. Nel mondo della danza la figura maschile è stata molto emancipata negli ultimi decenni, tanto da poter parlare in alcuni casi di uno scambio di ruoli più moderni, l’uomo spesso ha parti più importanti di quelli delle donne, e la figura femminile, l’immagine della ballerina per eccellenza, si trova ad invidiare la posizione della figura maschile.

Fuori da questo mondo, nel contesto quotidiano, l’ignoranza sta nel fatto che le dinamiche del contesto della danza sono poco conosciute. Non si conosce l’avanguardia, la classicità, oppure l’importanza storica, e neanche quello che comporta a livello fisico e atletico. Tutto lo sforzo fisico viene trascurato e questo porta al pregiudizio verso il ballerino che viene stigmatizzato come effemminato o omosessuale.

Perché è andato a studiare a Stoccarda? È stato un percorso difficile?

Sono partito a 14 anni per completare gli studi. Avevo un’insopprimibile voglia di essere fuori casa, avere la mia libertà e inseguire questo percorso.

Mia madre ricorda sempre che quanto mi hanno accompagnato a Stoccarda ed è giunto il momento di salutarsi, sono stato molto frettoloso e sono corso dentro la struttura come se nulla fosse, consapevole del fatto che avrei passato 10/11 mesi senza vederli. Questo sottolinea la mia tendenza all’indipendenza.

Ovviamente non è stata una passeggiata dal punto di vista della danza perché mi sono confrontato con un ambiente molto professionale, un livello di lavoro di alta qualità, con un impegno fisico e mentale elevato.

Il titolo che ha conseguito che carriera le permette di costruire?

Ho conseguito un titolo come ballerino professionista e ho ricevuto un diploma che certifica che in questo ambito ho un’istruzione di alto livello e mi permette di entrare in varie compagnie.

Si è trasferito all’estero pur di continuare il suo sogno: c’è qualcosa che vorrebbe dire ai giovani che hanno paura di inseguire le loro passioni?

Io posso parlare solo del mio mestiere. Ad un certo punto bisogna prendere e andare e più si ritarda il momento più si rischia di non fare la cosa giusta. I tempi stringono, è una carriera molto breve la mia. Prima si scopre il mondo e prima si scoprono le proprie capacità proprio grazie a questo scambio culturale che si ha viaggiando.

Conosco varie persone che hanno avuto paura di lasciare il nucleo famigliare o di lasciare l’Italia e questo è un grande deficit. Avendo avuto la fortuna di viaggiare molto per lavoro sono dell’opinione che più l’uomo viaggia più si arricchisce, è capace di provare compassione e di comprendere il prossimo. Dal punto di vista artistico si è artisti solo se si ha la capacità di comprensione, di immedesimarsi nel prossimo e quindi di interpretalo e saperne leggere i dettagli.

Il fatto di uscire dal luogo in cui siamo abituati a vivere, in cui abbiamo tutta la sicurezza del mondo porta a confrontarci con l’altro e anche a studiarlo e imparare da lui, quindi accrescerci e migliorarci.

Foto dal profilo Instagram di Alessandro Giaquinto

 

Come e quando è nata l’idea di scrivere un libro? Perché ha scelto di trattare la tematica dell’amore etero e omosessuale?

Innanzitutto, la passione della scrittura è nata prima di quella per la danza. Già da bambino scrivevo brevi poesie e filastrocche. È un’attività che mi piace svolgere nel tempo libero e, come per la danza, ho desiderato che anche questa mia passione diventasse il mio mestiere. In secondo luogo, è molto importante considerare il ruolo che la letteratura ha per la danza: sono collegate, l’una si appoggia all’altra. Alcuni dei più grandi balletti della storia sono favole.

Negli anni ‘60/’70, molti balletti nascono da grandi opere come Romeo e Giulietta, Anna Karenina, Orlando. Detto ciò, il mio libro è nato di sua spontanea volontà. Era una tipica domenica invernale, sembrava un pomeriggio grigio di novembre, ma in realtà era maggio 2018. Quel giorno ho scritto una frase, senza senso e senza contesto, a caso: da lì è nato tutto.

Riguardo la tematica, all’inizio il libro era incentrato su una coppia eterosessuale: volevo principalmente interrogarmi, in modo sia filosofico che poetico, su come possano “sciogliersi” i sentimenti, sul desiderio che spesso si ha dopo la fine di un amore. Il concetto che mi intrigava di più era come si potesse smettere di amare qualcuno, come questo sentimento potesse svanire nel nulla e come evitare che ciò accadesse. Mi sono accorto, poi, di come l’amore abbia molteplici sfaccettature: non bastava più l’unico esempio di una coppia eterosessuale. Ho allargato la tematica, introducendo così una coppia di due donne e una di due uomini.

È la prima volta che scrive in modo professionale? Come ha gestito questa nuova esperienza?

Il libro è stato scritto in due anni, da maggio 2018 a maggio 2020. Non sono stato aiutato, anche quando chiedevo ad alcuni amici di leggere qualche capitolo, loro se ne dimenticavano. È stato come un figlio, che ho fatto nascere e crescere. La sua struttura è molto complessa, non è un romanzo lineare. La prima stesura conteneva due personaggi principali e tutto era incentrato su di loro: andando avanti, mi sono reso conto di quanto fosse troppo restrittivo e minimizzante, così i personaggi sono diventati sei. Nonostante sia un romanzo breve, in questo modo ha acquisito molta intensità.

Cosa ha imparato da questa esperienza da scrittore?

Ci vuole moltissimo tempo e calma. Ho scritto principalmente nei momenti morti, nelle domeniche spente, nelle notti insonni, sul treno, sull’aereo, sul pullman. Il tutto è molto frammentario, così come la è la trama, dato che il romanzo è basato sui ricordi frammentati della vita dei personaggi.

Ho anche imparato che si sarà sempre insicuri su ciò che si fa, ma ad un certo punto bisogna lasciarsi andare e sperimentare.

Che messaggio vuole trasmettere con questo libro? A chi lo indirizzerebbe?

Penso sia adatto ai ragazzi più grandi oltre che per gli adulti, dato che le tematiche sono molto intense. Inoltre, l’approccio è molto filosofico e poetico. Posso descriverlo come un’analisi inconcludente di quello che sono i sentimenti: forse il messaggio è proprio questo.

Progetti per il futuro?

Continuare a fare ciò che faccio con la stessa passione di sempre, con energia e desiderio, con follia e incoscienza. Con tanto entusiasmo. Questa dimensione è l’unica per trovare la felicità.

Alessandro ha inseguito il suo sogno, riuscendoci. Ci insegna quanto sia importante coltivare le proprie passioni, non limitarci a rimanere nella sicurezza della nostra comfort zone, allargare i nostri orizzonti, sperimentare nuove sfide. La sua storia lo svela: occorre anche follia e incoscienza per trovare la felicità.

 

di Camilla Ardissone e Giorgia Cocci

1 Commento su Tra danza e scrittura: intervista all’autore di “La forza di chi non è solo”

  1. Complimenti Alessandro. Ad majora semper

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