Design! – Oggetti, processi ed esperienze in mostra allo CSAC e a Palazzo Pigorini
L'esposizione, attualmente chiusa al pubblico, ripercorre la storia del design italiano nel Novecento riflettendo sui temi del progetto e della produzione
Con qualche mese di ritardo causa pandemia, il 3 febbraio scorso è stata finalmente inaugurata la mostra Design! Oggetti, processi, esperienze nelle due sedi distaccate dell’Abbazia di Valserena e Palazzo Pigorini. L’ esposizione, attualmente chiusa al pubblico a causa delle recenti disposizioni ministeriali, è stata curata da Francesca Zanella e prodotta da CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma con il sostegno del Comune di Parma e della Regione Emila-Romagna nell’ambito di Parma Capitale Italiana della Cultura 2020+21. Il tutto è stato possibile anche grazie alla preziosa collaborazione di GIA – Gruppo Imprese Artigiane Parma.
“Gli archivi dello CSAC dell’Università di Parma -spiegano i curatori della mostra – custodiscono un immenso patrimonio di conoscenze sviluppate dalle generazioni di designer che hanno definito la cultura del progetto italiano nel Novecento. Tali conoscenze consentono di raccontare, attraverso una selezione di progetti emblematici, i temi centrali del design. La mostra, articolata in due sezioni, traccia un percorso in cui il designer – nelle sue tante vesti di bricoleur, artigiano, antropologo, filosofo, scienziato, tecnologo – riflette sui temi del progetto e della produzione, delle politiche di intervento sul territorio e sul patrimonio culturale, e sui differenti linguaggi e pratiche all’interno di una società multiculturale”.
Valserena e il design
La prima sezione allestita all’interno dell’Abbazia di Valserena, luogo splendido, che da solo vale la visita, nonché sede dello CSAC, riunisce disegni, prototipi e oggetti di designer italiani quali Archizoom Associati, Mario Bellini, Cini Boeri, Achille e Piergiacomo Castiglioni, Enzo Mari, Alessandro Mendini, Roberto Menghi, Bruno Munari, Alberto Rosselli, Roberto Sambonet, Ettore Sottsass jr.. L’allestimento è pensato per confrontare differenti modi di narrare il design, dal display dei documenti a quello degli oggetti, dalla narrazione museale alla organizzazione archivistica, venendo a costruire uno spazio esperienziale e di visualizzazione in cui convivono le tre parole chiave della progettazione: oggetto, processo ed esperienze. Oggetto, che va a cogliere da un lato la dimensione funzionale del progetto, tipica già dell’ideologia modernista, ma che dall’altro è allo stesso tempo strumento di rappresentazione delle culture. Una prospettiva, quest’ultima, affermatasi a partire dagli anni Sessanta, quando una nuova generazione di architetti rivendica la natura simbolica e quasi antropologica della propria creazione. Altro punto di snodo è il processo, inteso come momento autoriflessivo di definizione del progetto negli ambiti dell’innovazione, dell’impegno sociale e della prefigurazione del futuro, ma anche come interpretazione da parte del designer dei procedimenti dell’industria o della produzione. Un ambito, questo, che emerge con particolare evidenza dall’accostamento alle opere di disegni e abbozzi, in gran parte ricavati dall’archivio CSAC. Cruciale è, infine, l’esperienza, ovvero il design come disciplina orientata allo studio delle interazioni tra persone, oggetti e ambienti. Dopo la processualità del progetto attraverso i documenti di studio, passando per il sistema di oggetti che propongono un prototipo di museo, la dimensione corporea assume una centralità del tutto inattesa. “Se esperienza è conoscenza fornita dalle sensazioni o comunque acquisita per il tramite dei sensi- spiegano gli ideatori dell’allestimento- allora l’esperienza è anche legata al rapporto con gli oggetti che può essere inteso in termini strettamente funzionali o come un processo di presa di coscienza del proprio corpo, ornato o reso artificiale”.
L’esposizione
La centralità della dimensione corporea emerge, ad esempio, in molte delle realizzazioni di Alessandro Mendini, di cui ricordiamo la celebre Poltrona di Proust. “Gli utensili artificiali (tavoli, vesti, biciclette e, perché no, poltrone…)-scriveva Mendini- sono delle estensioni del corpo umano. Il corpo può essere considerato un oggetto, e viceversa l’oggetto è parte integrante e solidale del corpo umano”. Uno stile “a coriandoli”, quello di Mendini che è entrato a far parte dell’immaginario di molti di noi grazie alle vivaci cromature di molti dei suoi progetti realizzati per la casa di orologeria Swatch, a partire dalla seconda metà degli anni ’90.
Come Mendini anche Bruno Munari, fu a lungo collaboratore della nota casa svizzera, per la quale realizzò, poche settimane prima della sua scomparsa nel settembre del ’89, il suo celebre Tempo Libero. Con Munari la corporeità acquisisce una indispensabile dimensione soggettiva, tanto che, nel suo Depliant per Abitacolo arriva a chiedersi: “Che cos’è un abitacolo? Negli aerei monoposto è il posto del pilota contenente comandi e strumenti, spazio che nei grandi aerei diventa la cabina di pilotaggio. Negli autoveicoli di ogni tipo è lo spazio che accoglie le persone, nelle astronavi è lo spazio che accoglie gli astronauti con tutto il necessario per vivere e controllare la navigazione. Abitacolo è lo spazio abitabile in misura essenziale. In modo figurativo è anche l’ultimo recesso individuale, è il luogo interno dove è situato tutto ciò che forma il proprio mondo”.
L’idea di un nuovo modello abitativo torna insistente anche in Alberto Rosselli, ideatore della casa mobile, parte di un più vasto Mobile Environment. Al suo interno troviamo alcuni arredi, concepiti per contribuire ad offrire una nuova organizzazione, rispondendo alle necessità psicologiche della vita contemporanea. “Estetica della mobilità e della trasformazione- spiegava il designer- grazie alla possibilità di espansione del modulo in quattro direzioni, un nuovo uso dello spazio e del paesaggio, in risposta alla casa-oggetto del tutto statica”.
Tra le pieghe dell’esposizione, emerge, come già abbiamo avuto modo di notare in via del tutto accidentale, il felice connubio tra design e industria. Basti pensare alla figura Mario Bellini che, a partire dagli anni ‘70, realizzò alcuni tra i più noti modelli di calcolatrici e macchine da scrivere di casa Olivetti. “Il linguaggio di Bellini-spiegano gli ideatori dell’allestimento- si concentra su una rinnovata continuità del linguaggio organico, sull’uso dei materiali e soprattutto sulla creazione di un sistema omogeneo per le macchine Olivetti.”Allievo del celebre Gio Ponti e a sua volta docente universitario, Bellini riflette anche da un punto di vista teorico sul rapporto tra design e industria, evidenziando l’avvenuto passaggio da un design per l’industria a una industria del design. “Se fino a vent’anni fa l’espressione «fuori serie» era ancora sinonimo di eccellenza e di privilegio, ovvero di un’auto un po’ più costosa, ma di qualità e bellezza superiori- spiega l’autore-ormai nessuno prenderebbe più sul serio un’automobile «fatta a mano» perché essa risulterebbe, in carenza del poderoso lavoro preparatorio di engineering e attrezzatura (che normalmente richiede molti anni di studi e molte migliaia di miliardi di investimenti), oltre che di un costo inimmaginabile, ridicolmente inadeguata nelle finiture, nelle prestazioni e nell’affidabilità”.
Design e industria, si diceva: non solo industria manifatturiera ma anche industria della cultura e dell’editoria. Sono molte, non a caso, le case editrici che si servono della collaborazione di importanti designer e architetti per la cura degli aspetti grafici.
Basti citare il caso di Bollati e Boringhieri che, fin dalla sua fondazione a Saluzzo nella seconda metà degli anni ’50, scelse Enzo Mari per il disegno delle copertine della collana Universale scientifica Boringhieri. La firma del designer, scomparso alla soglia dei 90 anni lo scorso ottobre, riveste le pagine di alcuni dei più grandi studiosi del primo ’900, da Freud a Jüng, fino a Einstein e Wittgeinstein, con inconfondibili sovracoperte contraddistinte dalle bande nere al piede e in testa, che incorniciano uno straordinario gioco grafico con varie riproposizioni della stessa immagine.
La dimensione orizzontale dell’esposizione
Accanto ad immagini e prototipi su pannelli e in cassettiere che trasmettono a pieno l’atmosfera “da archivio” disposti lungo la navata dell’Abbazia, lungo il transetto è allestita una vera e propria “piattaforma”, intesa come modello di racconto orizzontale e relazionale, emblema del costante dialogo tra designer e artista, tra design e industria, dimostrandone la assoluta inscindibilità. “A differenza di un museo- spiegano i curatori dell’esposizione- in cui un oggetto è posto su un piedistallo, isolato per dichiararne il valore, in un archivio/museo come CSAC, assumiamo all’interno del linguaggio allestitivo la piattaforma come base che rende possibile l’attivazione di relazioni sistemiche, in cui l’oggetto è un testimone fondamentale di innumerevoli storie, personali o collettive, di specifici contesti culturali”.
Gli oggetti sono sempre, dunque, l’esito finale di un progetto e di modalità di produzione. In un archivio del design, questi sono, quindi, l’anello finale di una lunga catena di azioni e verifiche, sono prodotti che si rapportano con rappresentazioni grafiche, con immagini e prototipi. Aprendo il proprio archivio e presentando al proprio pubblico i processi che si nascondo dietro all’oggetto, CSAC contribuisce così una volta di più a confermare il claim scelto per Parma 2020/21: la cultura batte il tempo.
Palazzo Pigorini: corpi e processi
Corpi e processi. Sissi, Cinzia Ruggeri, Krizia, Brunetta e Atelier Farani, sono il mosaico espositivo dello studio sul fashion design presso Palazzo Pigorini.
Le tematiche della riflessione sul corpo e sull’abito mettono in luce quell’infinito patrimonio di tecniche e conoscenze del sistema della moda e della tradizione sartoriale capaci di dare origine ad abiti da indossare e da esporre allo stesso tempo. Uno straordinario esempio di creatività della moda artigianale, tra uno sguardo al passato e una innovazione verso il futuro. La mostra è una fonte per la ricerca artistica contemporanea e per il settore delle industrie culturali e creative.
In collaborazione con Equipage Srl, Maglificio Nuova Ester, Parmamoda Srl, sono stati ideati dall’artista Sissi tre abiti scultura, uniti in un filo logico con i figurini di Cinzia Ruggeri, Krizia e Brunetta e i costumi prodotti dalla Sartoria Farani. La poetica dell’artista resta attenta a una dimensione personale che sembra attingere da archivi e memorie: ogni abito rende vividi i ricordi e si lascia guidare dalle esperienze passate.
Tuta Linguale deriva dalle illustrazioni di Brunetta pubblicate negli anni Sessanta su “L’Espresso”: Sissi estrapola la sagoma di una tuta, un tipico abbigliamento in voga in quegli anni, e con un decoro linguale magistralmente riprodotto dalle nuove tecnologie, crea un innovativo abito/scultura.
Il Cappotto Biomorfo, dalle interessanti forme utopiche e sperimentali, si ricava dai motivi ondulatori di Cinzia Ruggeri.
L’Abito Antelamato si perfigura attraverso le estrapolazioni di motivi stilistici e formali dallo stretto rapporto tra arte e moda intessuto da Krizia: è generato dall’incontro con la scultura marmorea della Deposizione della croce di Benedetto Antelami, posta nel transetto della cattedrale di Parma.
La mostra è un allestimento circolare e progressivo dove al centro è posizionato l’abito come esito di un processo progettuale: accanto ai tre abiti principali, i disegni di Sissi si rapportano perfettamente con i figurini di Brunetta, Cinzia Ruggeri e Krizia per fluire in una comunicazione visiva che scorre e si propaga come un viaggio intorno al mondo.
Grazie all’abilità di Danilo Donati e alla maestria sartoriale di Farani nel fondere magicamente forme, tessuti e colori, il frac di Mandrake, Marcello Mastroianni nell’Intervista di Fellini del 1986, gli imponenti costumi per una donna di Bath (Laura Betti) e Gennaio (Hugh Griffith) de I racconti di Canterbury di Pier Paolo Pasolini del 1972, sono plasmati creando una presenza fisica e scenica veramente di impatto.
di Filippo Pelacci e Jacopo Agnesini
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