Il bianco e nero nell’era del colore: non solo “Malcom & Marie”

La storia del bianco e nero dalla prima tecnica di colorazione alla cinematografia contemporanea

Siamo immersi in un mondo a colori.  Difficile immaginare un mondo cinematografico privo di quelle sfumature, che sembrano ormai un elemento indispensabile per apprezzarne la visione. Eppure, a ricordarci che il  bianco e nero non è una tecnica relegata alla cinematografia del passato, è stata la pellicola Malcom e Marie del regista Sam Lavinson, uscito recentemente sulla piattaforma Netflix. Malcom & Marie è stato il primo film ad esser completato dopo lo scoppio della pandemia da COVID-19: il film è stato girato nel periodo di lockdown, il cast e la crew hanno lavorato al progetto in quarantena e in una location isolata. Questo spiega la scelta di ambientare l’intero sceneggiato nella casa dei protagonisti. L’idea del film è nata dall’attrice protagonista Zendaya e da un’esperienza vissuta dallo stesso regista Sam Levinson, che durante una presentazione del suo bel film precedente (Assassination Nation) si era dimenticato di ringraziare sua moglie. 

La serata tra il regista Malcolm (John David Washingtone la fidanzata Marie (Zendaya) prende una piega inattesa quando rientrano a casa dopo l’anteprima del suo film. Mentre aspettano le recensioni della critica, emergono rivelazioni sul loro rapporto che mettono a dura a prova la stabilità della coppia. In tempo di pandemia ogni emozione si amplifica e il film riesce a trasmetterlo bene, attraverso l’esplosività dei sentimenti dei protagonisti all’interno in un dialogo melodrammatico che rasenta la follia. 

Il film riprende i temi del cinema d’autore francese, in particolare quello della Nouvelle Vague e del conflitto amoroso portato all’esasperazione. La forza dei dialoghi e la fotografia magistrale di Marcell Rév, mista in un bianco e nero di pellicola, regalano allo spettatore fotogrammi e inquadrature degne di stampa. 

Bignami di storia: dal bianco e nero al colore

Inizialmente, questa tecnica era dettata dalla carenza di materiale tecnologico idoneo alla costruzione cinematografica di una filmografia a colori. Nonostante ciò, fin dalle origini del cinema, dai fratelli Lumière in avanti, si è provato a colorare o tinteggiare le pellicole o parte di esse.  Anche se non si può ancora parlare di vero e proprio colore ma bensì di una colorazione, i tentativi di colorare le proprie opere cinematografiche furono molti. 

Un primo procedimento per pellicole a colori risale al 1908 con il Kinemacolor. Inventato in Inghilterra da George Albert Smith e perfezionato da Charles Urban, consisteva nell’uso di due filtri rossi e verdi per proiettare un film in bianco e nero. Il primo film girato con questo formato fu il cortometraggio a Visit to the Seaside del 1908. Il primo film ufficiale a colori fu, invece,  Flowers and Trees, un film d’animazione prodotto dalla  Walt Disney nel 1932, che utilizzava il Three strip, un procedimento di colorazione basato su tre pellicole.

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Flowers and Trees, 1932

Il Three strip fu tra i dei procedimenti più significativi introdotti dalla Technicolor Motion Picture Corporation, un’azienda specializzata nel creare tecniche per la coloritura delle pellicole, istituita da Herbert e Natalie Kalmus negli anni Dieci. Fra il 1928 e il 1948, furono proposti più di mille procedimenti diversi. In Italia l’arrivo del cromofilm è sancito dall’uscita nel 1952 di Totò a colori che sfruttava il Ferraniacolor, una tecnica tutta nostrana a opera della Ferrania Technologies – un tempo produttrice di materiale fotografico – che ebbe impiego su larga scala a partire dagli anni Cinquanta.

Nonostante le numerose ricerche per avvicinarsi sempre di più a un mondo a colori, l’uso del bianco e nero rimane una scelta stilistica fortemente perseguita dai nostri migliori registi già dal secondo dopoguerra, negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Luchino ViscontiMichelangelo Antonioni, Federico Fellini e Pierpaolo Pasolini, hanno tutti assistito al passaggio a una cinematografia cromatica, eppure i loro migliori titoli rimangono quelli in bianco e nero. Il colore, stando alle argomentazioni delle pietre miliari del bianco e nero, distoglie dall’essenza della narrazione per dare risalto alla cornice, all’esteriorità del contorno. Ed è forse partendo da questo presupposto, che molti registi ancora oggi hanno deciso di cimentarsi nella realizzazione delle loro pellicole privilegiando l’assenza di colore alle potenzialità cromatiche offerte dall’era digitale.

Perfino in anni più recenti (se non recentissimi) nell’era del colore, ci sono diversi autori che prediligono il bianco e nero: tra questi troviamo il noto regista Steven Spielberg con Shinder’s List (1993). La pellicola narra la storia dell’impresario tedesco Oskar Schindler e della sua lunga ascesa economica verso il potere e la ricchezza, nella Polonia occupata dai nazisti. Dopo aver mostrato, nella parte iniziale, alcuni fotogrammi a colori di una candela accesa nel corso di una preghiera, il film è stato girato quasi nella  sua interezza in bianco e nero, come se l’autore volesse sottolineare l’assenza di gioia e spensieratezza in un periodo in cui orrore e terrore fanno da protagonisti: il grigio infatti ben si sposa con le divise delle SS. L’unico momento in cui il colore fa capolino è durante il massacro del ghetto, nel quale una bambina di quattro anni vestita di rosso scende in strada assiste alla strage e ne rimane vittima.

Oliwia-Dabrowska- Schindlers-List

Oliwia Dabrowska in una scena di Schindler’s List, 1993.

Rivisitato con questa estetica  è stato anche il film vincitore del Premio Oscar Parasite del regista Bong Joon-Ho, che nulla ha a che vedere con le pellicole del primo Novecento. La definizione delle immagini rimane altissima e il risultato cromatico finale acquisisce un aspetto duro e metallico tipico della lavorazione digitale. Questa tecnica diventa lo specchio di un racconto che, come scrive la Repubblica: “Mescola l’ironia col dramma più feroce, di grandi dualismi: la famiglia di ricchi contro quella di poveri, gli adulti e i giovani? Insomma un film a tinte forti, un film in bianco e nero”.

Parasite in bianco & nero

Una scena tratta dal film Parasite

Bianco e nero che passione, non solo nel cinema…

Fino agli anni settanta, finché il colore non ha avuto un costo accessibile a tutti, la quasi totalità delle foto erano scattate in bianco e nero. Le prime foto a colori nascono nel 1935 con la pellicola per diapositive Kodachrome, seguita nel 1936 dalla Agfacolor. Con i rullini fotografici si doveva decidere prima dello scatto se si volevano imprimere sul rullino i colori, per questo il bianco e nero – come invece potrebbe accadere oggi – non era una scelta di ripiego in fase di “post produzione”, ma una vera e propria scelta artistica. 

In ambito fotografico, tra coloro che prediligono l’uso del bianco e nero ancora oggi c’è il fotoreporter italiano Gianni Berengo Gardin, il quale ritiene che “il colore distrae sempre chi guarda una foto, si concentra più sul colore che sul contenuto”, e Michael Kenna, un fotografo inglese famoso per i suoi paesaggi in bianco e nero con luce eterea ottenuta fotografando all’alba o di notte con esposizioni fino a 10 ore. “L’ombra e la luce riflettono il mio percorso” ha dichiarato nel 2019 ad una sua mostra alla Galleria dell’Incisione di Brescia.

Lago Kussharo, Hokkaido, Giappone, 2005. (Michael Kenna)

La fotografia in bianco e nero ha ancora oggi il suo mercato: Leica, infatti, ha da poco presentato una nuova camera della gamma Monochrom basata sulla serie M10. La M10 Monochrom diventa così la terza generazione di macchine digitali Leica con sensore monocromatico, ovvero con la possibilità di scattare immagini solo in bianco e nero. Una celebre frase di Ted Grant (fotografo e giornalista che privilegia il bianco e nero) afferma che “quando si fotografano persone a colori, si fotografano i loro vestiti, ma quando si fotografano persone in bianco e nero, si fotografano le loro anime“.

Il bianco e nero, dunque, è ancora oggi una tecnica contemporanea e moderna, capace di percepire valori che possono passare inosservati  in ambienti in cui il colore è quasi sempre protagonista. Questa linea di pensiero ben si sposa con la scelta di Sam Levinson di girare il lungometraggio in bianco e nero, per dare maggior rilievo all’anima dei soggetti, sottolineando ancora una volta come il bianco e nero sia una scelta artistica di grande efficacia negli sceneggiati che pongono l’attenzione sulla profondità emotiva dei suoi personaggi.

 

di Daniele Leonardi e Anna Barbieri

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