Esperanto e lingue artificiali: quando il genio incontra l’utile

Alla scoperta dell'Esperanto, la lingua ausiliaria creata per superare le differenze tra i popoli perseguendo gli ideali di comprensione e pace

Da flickr.com, immagine di Crai Biblioteca de Lletres, https://flic.kr/p/UDAYz3

“L’assenza o difficoltà di dialogo dovuta alle differenze linguistiche crea incomprensioni, ed è stata causa di violenza più volte nel corso della storia”. È da questo assunto che partì Lejzer Zamenhof nel tratteggiare gli ideali su cui si regge l’Esperanto, la lingua  artificiale da lui ideata tra il 1882 e il 1887. Una lingua ausiliaria internazionale, semplice ed espressiva, creata con lo scopo di favorire il dialogo tra diversi popoli perseguendo la reciproca comprensione. Il professore Davide Astori, docente di Linguistica Generale ed Interlinguistica all’Università di Parma, ci racconta la nascita e le caratteristiche del rivoluzionario progetto di Zamenhof.

Esperanto: una lingua di pace

Cos’è l’Esperanto? È una lingua artificiale nonché lingua ausiliaria che, presentata nel ‘Primo Libro’ di Zamenhof come Lingvo Internacia, aveva il fine di unire popoli diversi generando tra di essi comprensione e pace non senza proteggere gli idiomi “minori”, destinati a soccombere a causa dell’affermazione invasiva delle lingue appartenenti alle nazioni più forti.

Alla base della sua struttura, ritroviamo un fondamento linguistico notevole: dal punto di vista lessicale l’Esperanto assimila i termini appartenenti alle lingue romanze che, durante il periodo di elaborazione della lingua artificiale, rappresentavano le lingue più parlate nel mondo. Dal punto di vista morfologico l’Esperanto può essere considerata una lingua agglutinante, come il turco, in cui una parola è costituita da morfemi uniti fra loro che, pur rimanendo invariati, determinano il significato di quest’ultima.

La sua espressività, che la accomuna alle lingue naturali, è accresciuta dalle numerose traduzioni fatte in questa lingua, come il romanzo “Pinocchio” di Carlo Collodi o i romanzi di Jules Verne, noto esperantista, e dalla sua razionalizzazione che permette di evitare qualsiasi tipo di ambiguità.

Il professore Davide Astori, docente di Linguistica Generale e Interlinguistica dell’Università di Parma, nonché autore di Due passi in esperantujo, parla del suo approccio con la Lingvo Internacia come di un incontro fortuito: “Iniziai a studiare la lingua Esperanto all’età di 20 anni col tentativo di inserirmi all’interno degli articoli di una rivista e, colpito dal suo contenuto etico e dalla sua volontà di superare i conflitti culturali e religiosi presenti tra popoli diversi, decisi di approfondire il mio studio”.

L’esperimento del professore Astori ha avuto delle conseguenze positive: ad oggi, l’esperto si occupa dello studio dell’Esperanto curando dei corsi per chi vuole cimentarsi nello studio di una lingua che, oltre ad essere interessante per i propositi che la contraddistinguono, è caratterizzata da un suo sostrato culturale che vanta un’anzianità di 130 anni.

La Lingua oltre la lingua

Parlando di Esperanto non possiamo che pensare al dato linguistico, una percezione corretta, certo, ma almeno in parte limitata. “Ciò che più mi ha affascinato – spiega Davide Astori e che ancora oggi mi affascina è il contesto culturale che, già nella mente di Zamenhof doveva ruotare attorno alla lingua: non solo una ponto-lingvo (lingua ponte)  ma anche e soprattutto una ponto-religio (religione ponte). Le diversità linguistiche e religiose erano, nell’ottica di Zamenhof, causa della separazione dell’umanità e quindi della sua infelicità: se da un lato la lingua separa normalmente solo da Paese a Paese, la religione causa discordie tra i figli dello stesso Paese. In quest’ottica la lingua è solo un mezzo per raggiungere un fine ben più elevato”.

Un progetto, questo, che accompagna l’intera esistenza del glottoteta polacco che, nel febbraio del 1905, scriveva in una lettera all’amico Michaux:” Dalla più tenera infanzia mi sono dedicato anima e corpo a una sola idea, a un solo sogno ad occhi aperti: il sogno dell’unificazione dell’umanità. Questa idea è l’essenza e lo scopo della mia vita intera, la afero (causa, n.d.r.) dell’esperanto è solo una parte di questa idea […] Questo piano consiste nella creazione di un ponte morale, mediante il quale si possano unire fraternamente tutti i popoli e tutte le religioni“. Proprio questo è uno dei punti chiave per comprendere la mancata diffusione a livello internazionale dell’homaranismo, così ribattezzata per la centralità in essa dell’homaro, dell’uomo appunto.

“Benché il progetto nasca già dai primi anni – spiega il Professor Astori – fino al 1901 esso rimase di fatto segreto, una idea interna al movimento, inizialmente ribattezzata hilelismo, rabbino Hillel vissuto a cavallo dell’età volgare fautore di una visione aperta della legge riassumibile nella massima di sapore vagamente evangelico: ‘Ciò che non desideri per te, non fare al tuo prossimo‘”. Sintomatico di questa iniziale reticenza è quanto accadde a Boulogne-sur-Mer, in occasione del primo Congresso Universale di esperanto, dove, dopo una breve presentazione della lingua, Zamenhof presentò il più vasto progetto religioso: “Allo stesso modo in cui io, in questo momento, non appartengo a una nazione ma sono solo un uomo, così sento anche che, in questo momento, non appartengo a qualche religione nazionale o partitica ma sono solo un uomo. E in questo momento innanzi agli occhi della mia anima vi è solo quell’alta Forza morale che ogni uomo sente nel suo cuore, e a questa Forza sconosciuta mi rivolgo con la mia preghiera”. Seguì uno dei passi più alti dell’intera produzione esperantista, tanto più incredibile se solo si pensa alle catastrofi che a breve avrebbe portato  Secolo Breve: la Preĝo sub la verda standardo (preghiera sotto la bandiera verde). Zamenhof, però, temendo di veder naufragare anche il progetto di una lingua universale, preferì non recitare l’ultima strofa, nella quale compariva senza dubbio il più forte richiamo etico-umanitario. Basti citare i due versi centrali: Kristanoj, hebreoj aŭ mahometanoj/ni ĉiuj de Di’ estas filoj (Cristiani, ebrei, maomettani/noi tutti siamo figli di dio).

Zamenhof lasciò un grosso regalo all’umanità – spiega il Professor Astori. Troppo spesso, però, si tende a sminuire ciò che è gratuito. A ciò occorre aggiungere che, per accettare la soluzione, occorre anzitutto riconoscere l’esistenza di un problema”. 

“La seconda lingua di tutti, la prima lingua di nessuno”

Nonostante la lingua fosse contraddistinta da ideali di pace e dalla volontà di superare qualsiasi confine posto fra due popoli diversi, quest’ultima dovette affrontare una diffusione difficoltosa proprio a causa dello scoppio delle due guerre mondiali che, per loro natura, obliarono quelle che erano le velleità pacifiste di Zamenhof.

Durante la seconda guerra mondiale, Stalin e Hilter, il quale parlerà della Lingua Esperanto nel suo Mein Kampf, iniziarono a perseguitare gli esperantisti vedendo nella lingua dell’oculista polacco un possibile tentativo di aiuto alla diaspora ebraica; successive alle dichiarazioni del Fürher vi saranno le parole di Stalin che definirà l’Esperanto la “lingua delle spie“.

Nonostante i vari problemi incontrati dall’Esperanto a seguito dello scontro con i totalitarismi del ‘900, il motivo del suo declino fu l’affermarsi degli Stati Uniti e, consequenzialmente, della loro lingua: l’inglese, forte della sua potenza, si proponeva come lingua internazionale.

Sebbene la lingua non abbia avuto il successo che meritava, grazie al suo punto di vista originale pregno di una visione laica e non partitica e, secondo il professore Davide Astori, grazie agli obiettivi che si era prefissata che la rendevano una “lingua come mezzo e non come fine” cioè una lingua con un contenuto capace di attecchirsi nella comunicazione.

Ancora oggi i linguisti parlano dell’Esperanto come di un passe-partout per apprendere altre lingue; non a caso, Zamenhof era un profondo conoscitore di lingue, elemento fondamentale per un linguista, che gli permise di poter fondare una lingua dotata di una grammatica profonda, relativa alle strutture profonde di una frase, capace di potersi adattare alle regole profonde Chomskiane relative alla mente umana.

Rosenfelder e il suo Kit di Costruzione di Linguaggi

Da bambini tutti abbiamo provato a parlare una lingua ‘segreta’ che gli altri non potevano capire o, addirittura, provato ad inventarla: ma come si crea davvero una lingua artificiale?

Mark Rosenfelder lo spiega con il suo Kit di Costruzione di Linguaggi. Questo progetto comprende una raccolta di documenti HTML ideata per essere utilizzata come guida nella costruzione di lingue artificiali, fruibile sul sito internet Zompist.com.

Il Kit procede partendo dagli aspetti più semplici del linguaggio, come la fonologia e i sistemi di scrittura, fino ad arrivare a quelli più complessi, ovvero l’analisi vera e propria delle parole. Il tutto attraversando ogni caratteristica grammaticale, per giungere alla descrizione finale sui registri e i dialetti. Questa modalità di progressione, assistita da suggerimenti per evitare errori di svista e da un’elevata dose di umorismo, ha permesso al Kit di guadagnare un alto livello di popolarità.

Un’altro Kit che condivide lo stesso obiettivo di quello di Rosenfelder è quello di Pablo Flores, How to create a language.

Non solo Esperanto: il successo delle lingue artificiali al cinema e in televisione

La creazione di un nuovo linguaggio, può avere anche altri utilizzi oltre a quello di facilitare la comunicazione nella vita reale. Tra le molteplici lingue artificiali create dall’uomo e utilizzate, spesso, in ambito televisivo-cinematografico, troviamo ad esempio il Klingon: lingua ufficiale a tutti gli effetti, con tanto di certificazione internazionale ISO 639. Creata dall’illustre linguista Marc Okrand, l’anno ufficiale della sua nascita è il 1984, ben 17 anni dopo essere stata menzionata per la prima volta nella serie Star Trek. Essendo considerata una vera e propria lingua ufficiale, il Klingon dispone anche di un suo dizionario, di libri originali e tradotti da altre lingue, e di una raccolta di proverbi e modi di dire, col titolo “The Klingon Way”, pubblicato nel 1992.

Quando venne affidato ad Okrand l’incarico della creazione della lingua dai produttori della serie televisiva, l’obiettivo era quello di avvicinarsi il più possibile ad un idioma alieno, almeno secondo le caratteristiche dell’immaginario collettivo. A livello morfologico, l’alfabeto klingon utilizza lettere latine, anche se nelle parole sono alternate lettere maiuscole e minuscole. Per chi volesse avvicinarsi allo studio di questa lingua, l’aspetto più difficile riguarda le regole grammaticali, dato che nella costruzione della frase viene seguito l’ordine complemento oggetto – soggetto – verbo, tipo di costruzione che viene utilizzato dall’1% circa delle lingue contemporanee. Grazie ai corsi online del Klingon Language Institute, ora poche decine di persone riescono a parlare la lingua fluentemente, e altre centinaia risultano essere a livello intemedio.

Altra lingua artificiale di notevole fama è il Sindarin, più comunemente conosciuto come lingua elfica. John Ronald Reuel Tolkien, scrittore de ‘Il Signore degli Anelli’, lo aveva creato come linguaggio degli Elfi, quelli che nell’avventura incontriamo a Gran Burrone. Il Sindarin, essendo ispirato alle lingue gallesi, oltre che avere una certa musicalità è anche composto da regole fonetiche. L’alfabeto elfico, il Tengwar, è molto complesso e impegnativo da assimilare, essendo composto da lettere molto elaborate chiamate Rune, simili agli ideogrammi. Anche questa è una lingua apprendibile, e grazie alle innumerevoli opere lasciateci da Talkien, sono stati creati vocabolari e grammatiche dagli studiosi, inoltre su internet sono disponibili il vocabolario Italiano-Sindarin e Sindarin-Italiano.

Come non citare poi il Dothraki, proveniente dalla famosissima serie ‘Game of Trones. La creazione di questo linguaggio è stata affidata dalla HBO alla Language Creation Society, che ha scelto David J. Peterson come linguista. Peterson ha consegnato alla HBO un vocabolario che comprendeva già 1700 parole prima dell’inizio delle riprese.

 

Di Lorenzo Barizza, Filippo Pelacci e Carmen Stagnitti

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