L’agenzia spaziale europea dice sì ai Parastronauti

L'Esa avvia un programma sperimentale per studiare le possibilità di includere nelle missioni spaziali anche astronauti affetti da certi tipi di disabilità fisica

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Fin dalla nascita del cinema, raggiungere il cielo e gli altri pianeti è il sogno dell’uomo. Nel 1969, al grido di Neil Amstrong “Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità”, l’uomo è riuscito a raggiungere il suolo lunare e a piantare la bandiera americana con la missione Apollo 11. A questa ne sono seguite altre, così come si è sempre più arricchita la cinematografia inerente alla tematica viaggio nello spazio.

Recentemente, l’uomo è tornato a compiere un altro grande passo verso l’ignoto, ma questa volta all’insegna dell’inclusione. Per la prima volta l’Esa (Agenzia Spaziale Europea) ha deciso di aprire nuove candidature per le missioni spaziali anche a persone affette da disabilità. Il programma cerca “individui qualificati psicologicamente, cognitivamente, tecnicamente e professionalmente per farli diventare astronauti anche se portatori di una disabilità fisica che normalmente impedirebbe di essere selezionati a causa dei requisiti imposti dall’uso degli attuali hardware spaziali”. 

Abbiamo approfondito la questione insieme al professor Fabio Bozzoli, docente presso il dipartimento di Ingegneria e Architettura all’Università di Parma,  e ricercatore presso l’Esa, dove sta sviluppando il progetto Topdess. 

Ed è  proprio questo ambito di ricerca che lo lega alla dottoressa Naoko Iwata, ricercatrice presso la JAXA (Japan Aereospace Exploration Agency) “La nostra esperienza è relativa a voli parabolici che è diverso dall’essere astronauti. Sono delle esperienze sperimentali su un aereo che continua a salire e scendere di quota in modo da avere delle finestre da una trentina di secondi dove c’è assenza di gravità. In caduta libera in quei secondi si possono fare degli esperimenti in assenza di gravità. Diverso è il bando dell’Esa, che è per astronauti: gente che volerà al di fuori dell’atmosfera terrestre.” precisa il professor Bozzoli.

Il bando dell’Esa riguarda un programma sperimentale: l’obiettivo è cercare di capire se sia possibile includere in missioni spaziali persone caratterizzate da disabilità, individuate dal comitato delle Paralimpiadi. Si parla di amputazioni al di sotto del ginocchio e di stature limitate sotto i 130 cm. “Io lo trovo interessante: bisogna partire senza preconcetti e studiare le abilità, bisogna studiare in senso propositivo, non le disabilità” commenta il professor Bozzoli.

“Non è un viaggio premio, è una missione e anche i normo dotati vengono valutati dal punto di vista fisico: problemi cardiaci, di pressione, possono essere elementi che non permettono di partecipare. Vengono quindi analizzate le possibilità di svolgere i compiti che si presentano durante queste missioni, e sono sia compiti di tipo scientifico, quindi tutti i membri devono avere lauree specifiche, che compiti di tipo tecnico-fisico perché devono svolgere delle routine, in caso di emergenza alcune procedure. Quindi è uno studio di fattibilità“.

In previsione di viaggi complessi come quelli nello spazio è necessaria una specifica strumentazione oltre che ad una preparazione fisica e mentale non indifferenti. Si tratta sempre di impostare una nuova routine in una grande casa che galleggerà in orbita per un certo periodo di tempo, e nessun aspetto tecnico può essere trascurato. Inoltre, bisogna anche tenere conto dei costi, che non sono del tutto indifferenti. A tal proposito la dottoressa Iwata spiega che “Le limitazioni sull’aspetto fisico sono dovute ai costi delle tute spaziali. Sono così costose che per ora solo Stati Uniti e Russia sono intervenute sull’adattamento delle tute per un costo di 15 milioni di euro“.

Le limitazioni però non sono dovute solo al costo della strumentazione. È necessario considerare sempre che si tratta di missioni la cui riuscita dipende da tutti i membri dell’equipaggio, e pertanto non si può rischiare. Alla luce di tale aspetto, il professor Bozzoli aggiunge: “Servono persone in grado di fare questo. La selezione è ristretta, serve a poco aprirla troppo: sono tempi e costi sterminati anche per la collettività, è giusto partire da un gruppo esteso ma già di un certo livello”.

La dottoressa Iwata racconta che in Giappone “questa possibilità è limitata a poche persone”, ma la sfida aperta dall’ESA  ha portato la JAXA  a discutere per una nuova selezione. In particolare si vorrebbe “estendere il numero di africani”, visto che quest’anno solo una parte ristretta di loro ha fatto domanda.

Il progetto dell’ESA potrebbe quindi diventare uno spunto fondamentale per la creazione di ulteriori progetti atti a  favorire l’inclusione,  affinché l’attività lavorativa  diventi,  come ribadisce l’’articolo 27  della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, un diritto di tutte le perone affette da disabilità.

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È proprio sui concetti di disabilità e normalità che il professor Bozzoli invita a riflettere: spesso il termine disabilità viene confuso con il concetto di deficit mentale. “Dipende cosa si intende per deficit mentale: un dislessico non ha deficit mentali, ma è una categoria sensibile, e quindi si lavora sempre sulle abilità. Se riesce a svolgere tutti i compiti perché no? La disabilità non significa non poter fare delle cose, ma farle in maniera diversa, e quindi il cambio di prospettiva nella logica delle abilità, che possono essere di tutti.”

Ed è  forse seguendo questa linea che il progetto dell’Esa si propone a formare in modo totalizzante le future reclute coinvolte attivamente nel loro lavoro.

 

di Camilla Ardissone e Anna Barbieri

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