Ragazzi sull’orlo del “buco”: quali droghe si sperimentano oggi e perchè
"Nella 'stanza di Dio' facevo esperienze di morte": F. ci racconta del suo rapporto con la Ketamina. Ma sono sempre di più i giovani che sperimentano allucinogeni e droghe stimolanti, alla ricerca di esperienze mistiche o attratti dallo status che richiamano
Puoi diventare il divano su cui sei sdraiato. Dissociarti dal tuo corpo. Sperimentare la premorte. Gli effetti della ketamina, sedativo usato come droga allucinogena, possono essere i più diversi: a seconda della dose provoca dall’euforia, allo stordimento, al viaggio mistico.
Negli ultimi anni il suo appeal è cresciuto e mentre prima era relegata all’ambiente dei rave, da alcuni anni entra in discoteca e nei club, attirando consumatori sempre più giovani per la sua fama di droga controllabile, in fondo innocua, che non lascia postumi negativi. F., che per anni è stato un consumatore assiduo di ketamina, ci racconta però una realtà ben più complessa.
Oggi F. ha 31 anni, ma la sua storia con la ketamina è iniziata anni fa, quando frequentava rave e festival per ballare e per sballarsi. “Volevo divertirmi e per me il divertimento è sempre stato sinonimo di bere e drogarsi. Perciò mi facevo di md, mdma, ketamina, cocaina, anche tutte assieme. Poi, però, ho iniziato a cercare qualcosa di più dalle mie allucinazioni, a cercare un nesso. Ho smesso quasi tutto tranne LSD e ketamina, con cui avevo più probabilità di avere allucinazioni. Nel giro di un anno ho iniziato a farmi questo mix di droghe quasi ogni fine settimana”. Fino a chiudersi in un trip, una sorta di lunga e permanente allucinazione, in cui “tutte le persone non erano che la manifestazione di me stesso, anche i miei genitori. È durata due o tre anni, durante i quali sono stato convinto che fosse tutto un mio grande viaggio, in cui avevo scelto di costruirmi una tra mille vite possibili”.
Gli effetti della ketamina
La ketamina provoca una dissoluzione parziale dell’ambiente circostante, delle sensazioni fisiche e dei pensieri: “Puoi vedere quel calorifero lì che si sposta e diventa grosso o piccolissimo. E poi si perde la profondità di campo: ad esempio, guardo la televisione dal divano e la vedo piccolissima, eppure ben definita, non capisco più quanto sia distante”. Ma può portare anche a sensazioni di premorte e dissociazione dal proprio corpo. “Quando ‘morivo’ – racconta F. – era come se potessi vedere la mia intera vita, passato presente e futuro, e anche quella degli altri. La prima volta che ho raggiunto questo stato sentivo delle voci: ho ipotizzato che fossero i pensieri delle altre persone. Ho iniziato a frequentare i vari festival per sfruttare l’energia vitale degli altri attraverso dei “rituali”. Pensavo: se io sono il generatore di tutto ciò che ho intorno, posso modificarlo”.
Lo stadio del trip in cui si verificano queste esperienze è chiamato k-hole: un “buco” durante il quale la mente cosciente non riesce a interagire con le altre parti del cervello. Dentro, nella testa, l’effetto è quello di esperienze ai confini tra la vita e la morte, o di connessione spirituale. Fuori, un corpo le cui funzioni vitali sono sospese, una persona ferma che non è in grado di muoversi o parlare. Entrare in k-hole senza essere preparati significa trovarsi completamente in balia della sostanza. “Quando ero in questo luogo, in questa forma che chiamavo ‘la stanza di Dio’, facevo allucinazioni in massa, in cui c’erano figure mezzi uomini e mezzi polli, missili, viaggi sulla luna. È soprattutto un’esperienza spaventosa – spiega F. – specie quando sono con altre persone, perché non è facile da gestire e so che c’è sempre il rischio che non torni più indietro. Quando mi faccio da solo, a casa, è tutto più controllato.”
Un giorno l’esperienza di F. è andata troppo oltre. “Un giorno ho esagerato a un festival in cui non conoscevo nessuno: sono rimasto chiuso in un limbo in cui esistevo solo io e da cui non riuscivo a comunicare con l’esterno. Mi sono chiesto se valesse la pena di continuare a vivere così, non ce la facevo più a sopportare questo peso. Uscito da questo trip ho smesso di drogarmi per un anno, è stato molto bello e liberatorio”.
Poter restare incastrati in un trip non è però l’unico rischio che l’abuso della ketamina comporta. “Assumevo anche due grammi, due grammi e mezzo di keta al giorno, a volte per periodi di 12, 14 giorni di fila – ricorda F. – Ero così assuefatto da ‘farmi le botte’ prima di andare al lavoro, anche se non mi sono mai presentato in condizioni tali da non poter lavorare. Così facendo, però, sono finito in ospedale due volte per problemi all’intestino, non riuscivo a muovermi dal dolore”. Senza contare che alla keta, come altre droghe, si sviluppa subito una certa tolleranza, per cui sono necessarie dosi sempre più massicce per avere un trip.
Per non perdere il controllo F. si è dato delle regole: non più di due o tre grammi, solo durante il weekend. “Vorrei poterlo fare più spesso, mi piacerebbe sentirmi sempre così adrenalinico, creativo. In alcuni momenti è come se tutto il mio cervello fosse acceso, riesco a sentire le vibrazioni delle cose, gli insetti nei muri. Però se supero il limite spendo soldi inutilmente e sto male”.
Paola, psicologa presso il SerT di La Spezia, spiega infatti che “la persecuzione dell’uso delle sostanze stupefacenti è legato al senso di piacere che danno”. Questo piacere però, è destinato a durare sempre meno mano a mano che l’utilizzo va avanti, attivando “un meccanismo di ricerca della sostanza e il proseguimento del comportamento d’uso ,creando i presupposti per l’ instaurarsi di una dipendenza”. Inizialmente, inoltre, non vengono avvertiti effetti negativi o conseguenze spiacevoli e questo fa si che il comportamento d’uso venga reiterato: “la persona non avverte il pericolo di diventare dipendente dalla sostanza che usa, si sente di poter controllare la sostanza e ne percepisce solo l’effetto piacevole“.
Serve informazione
Sempre più ragazzi e ragazze sperimentano sostanze allucinogene e stimolanti, per restare accesi, per essere più performanti o solo per sballare. Ma fare formazione sul consumo corretto delle droghe è ancora impensabile per un Paese che le vieta; e nel vuoto informativo che circonda gli stupefacenti trovare la misura è difficile. Qualcuno, come F., ha individuato il proprio limite dopo averlo superato e ha avuto la capacità di riconoscerlo e imporselo, non senza essersi scoperto molto più debole di quanto pensasse contro la dipendenza. “Se le sostanze fossero viste in modo diverso, però, mi farei seguire da un dottore per poter consumare abitualmente e in sicurezza: ancora oggi sono solo blandamente informato, per quanto le informazioni che si trovano in rete sulla ketamina siano aumentate; e in giro al massimo passa il volantino per le scuole”.
D’altra parte l’uso di stupefacenti è ancora considerato uno stigma e un problema di ordine pubblico, più che una questione sociale: perciò, mentre esiste una rete consolidata di servizi e percorsi per la cura delle dipendenze e una grande attenzione alle politiche di contrasto allo spaccio, non esiste una programmazione rivolta alla sensibilizzazione sugli effetti delle droghe, né tantomeno all’informazione sul consumo in sicurezza. Certo, di tanto in tanto i servizi per le dipendenze entrano nelle scuole per incontrare gli studenti e metterli in guardia dai rischi che il consumo comporta. “Ma i ragazzi non traggono giovamento dalle iniziative ‘una tantum’ con gli esperti – racconta Renzo Ricci, responsabile dello SMI di Concesio, in provincia di Brescia – poi non ricordano più niente. Funziona molto di più, per esempio, un percorso di peer education in cui i ragazzi lavorano in gruppo per tutto il corso dell’anno”.
Di consumo consapevole, invece, semplicemente non si parla e non si chiede: come assumere una sostanza, in quali dosi, quanto fare attenzione alla qualità e alla purezza del prodotto sono temi tabù, intorno ai quali il silenzio è una legge non scritta. Così chi vorrebbe informarsi si affida piuttosto alla rete e alle farraginose informazioni che vi trova. Secondo Renzo Ricci far cadere questo tabù e spingere le persone a utilizzare i servizi per le dipendenze come consulenti, prima che la droga diventi un problema, è una delle sfide dei prossimi anni, “altrimenti continueremo a curare pazienti gravi, senza nessun aggancio precoce. I servizi devono essere destrutturati, se vogliamo che le persone non ci vedano come ‘quelli delle dipendenze’ dobbiamo essere sul territorio e non restare arroccati in un castello che spaventa. Le persone devono sentirsi libere di venire a parlare con noi. Così se sono un giovane che consuma, non sto tanto bene, però mi piace, faccio un colloquio con dei professionisti per valutare il mio consumo“.
Eppure è chiaro da anni che fingere che il consumo di droghe sia cosa per delinquenti è un approccio fallimentare. Già nel 2011 la Commissione Globale per le Politiche sulle Droghe istituita all’ONU aveva smentito, nel suo rapporto, l’efficacia della “guerra globale alla droga”: “Gli sforzi repressivi diretti sui consumatori impediscono misure di sanità pubblica volte alla riduzione di HIV/AIDS, overdosi mortali e altre conseguenze dannose dell’uso della droga. Invece di investire in strategie più convenienti e basate sul evidenza per la riduzione della domanda e dei danni le spese pubbliche vanno nelle inutili strategie della riduzione dell’offerta e della incarcerazione”.
Tra le sue raccomandazioni il rapporto invita gli Stati a sperimentare, tra gli altri, sistemi di regolamentazione giuridica degli stupefacenti e politiche strutturate per la riduzione del danno. In Italia, tuttavia, vige ancora una visione – anche istituzionale – anacronistica del problema, scollata da una realtà in cui il consumo di stupefacenti è ormai normalizzato, in barba ai divieti.
Una delle ragioni di questa scollatura è l’assenza di un confronto sul tema: il testo unico sulle droghe – la legge 309 del 1990 – prevedeva una conferenza nazionale ogni tre anni. L’ultima, però, si è tenuta nel 2009. A 10 anni di distanza, su richiesta degli enti di settore e delle associazioni che sostengono la legalizzazione della cannabis era stata fissata una nuova conferenza, prevista per fine febbraio 2020: ma a causa della pandemia è stata rinviata a data da destinarsi.
Parla la psicologa: “Il topo solo finisce sempre per morire”
Martina Finetti, psicologa di Piacenza, spiega come i fattori che influiscono sulla predisposizione verso l’assunzione di determinate sostanze siano di tre tipi: innanzitutto biologici, perché ad incoraggiare l’avvicinamento agli stupefacenti ci sono alla base eventuali disturbi mentali, come depressione o ansia; in secondo luogo di sviluppo, perché ci sono delle fasi, nella vita di un individuo, in cui si è più sensibili, e quindi più inclini alla sperimentazione di comportamenti devianti o alla pressione di un gruppo di amici; infine ambientali.
Per chiarire questo ultimo fattore è bene conoscere un esperimento fatto negli anni ’80. C’è un topo da solo in una gabbia con due bottiglie, una con dell’acqua e l’altra con acqua diluita con cocaina ed eroina. Il topo beveva esclusivamente l’acqua contenente la droga, continuando fino alla morte. Successivamente, l’esperimento viene ripetuto, con la differenza che vi erano tanti topi e diversi stimoli divertenti, come palline colorate o cibo: in questo caso, molti topi non assumevano la droga e altri, invece, ne facevano uso in modo moderato. “Il risultato fu emblematico e illuminante – spiega la psicologa – dal momento in cui il topo singolo finisce sempre per morire. Quando c’è un gruppo o un ambiente stimolante, questo non accade. Stessa cosa per gli uomini.”.
La dipendenza non ha a che fare solo con le sostanze, ma con i motivi per i quali si fa uso di quest’ultime. “Lontani dagli altri fatichiamo a starci, perché l’uomo è un animale sociale. – spiega la psicologa Finetti – Inoltre, gli esseri umani provano emozioni e ricercano, per natura, sensazioni piacevoli nel più breve tempo possibile. Quando si assumono sostanze, aumentano i livelli di dopamina, il neurotrasmettitore in grado di generare benessere. Per questo si prosegue con il consumo e si fatica a smettere, soprattutto se in quel momento si è privi di emozioni positive. Inoltre, risulta impossibile valutare gli effetti disastrosi che ci saranno nel lungo termine”.
Le droghe da generazione a generazione
Infine è interessante evidenziare i motivi per i quali generazioni diverse sono entrate in contatto con la droga. Ciò che ha facilitato l’avvicinamento alle droghe soprattutto da parte dei ragazzi è l’abbassamento dei costi di queste ultime sul mercato illegale: “la cocaina, che un tempo aveva un costo elevato, ora viene acquistata ad un costo più basso ed è presente in grandi quantità sul mercato nero – ci informa la psicologa del SerT- e questo ha contribuito molto alla sua diffusione”.
Inoltre sono cambiate anche le modalità con cui alcune di queste sostanze vengono consumate, cocaina ed eroina per esempio, le quali in un primo momento venivano iniettate mentre ora vengono fumate o inalate: “questo contribuisce a creare negli utilizzatori l‘idea di poterla gestire meglio e che sia meno pericolosa come effetti a lungo termine”, conclude Paola.
E poi sono cambiati i motivi. Se negli anni ’70/’80 l’assumere sostanze veniva vissuto come un atto di ribellione, un’opposizione rispetto agli schemi culturali, morali ed etici del tempo, oggi è diventato “un modo per entrare in relazione con gli altri”.
“Credo che oggi sia proprio il contrario – conclude Finetti – oltre alle “sostanze tipiche” come eroina e cocaina, ci sono le cosiddette “nuove sostanze psicoattive”, orientate al produrre degli effetti eccitatori, per evidenziare la capacità di mostrarsi, di apparire. Infatti, l’assunzione dimostra un’adesione ai valori imposti dal gruppo, come il lusso e l’eccesso, valori totalmente diversi da quelli di un tempo. Ci sono alcuni rappers o trappers che incitano al consumo della droga come simbolo di ricchezza o come mezzo per raggiungerla”.
di Jennifer Riboli, Giorgia Cocci, Anna Barbieri
Un ringraziamento particolare va a Giulia Bellandi, autrice delle fotografie presenti in questo articolo. Di casa a Brescia, ha girato il mondo per fotografarlo, immortalando scene di vita nei più disparati Paesi del mondo, dalla Russia alla Cambogia, dal Vietnam al Nepal. I lavori qui riportati fanno parte del suo ultimo progetto, “The Street Project”, che racconta vite di strada: situazioni e persone “scomode”, che spesso cerchiamo di non vedere e dalle quali preferiamo stare lontani.
Articolo molto interessante.
Mi ha colpito e affascinato l’intervento della psicologa Martina Finetti, complimenti a lei e a tutti voi anche.
Articolo molto interessante. Sarebbe perfetto se solo in Italia ci fosse piu informazione a riguardo. Purtroppo la societa e chi ci dirige tendono spesso a generalizzare o a trovare finti capri espiatorii, eludendo il problema in maniera più facile, senza analizzarlo alla radice.