‘I ragazzi di oggi non vogliono lavorare’. No, noi vogliamo solo essere pagati
Quanto ancora dobbiamo accettare di essere etichettati come la generazione dei fannulloni? E se il problema non fossimo noi?
‘I ragazzi di oggi non vogliono lavorare’. Quanto spesso lo avete sentito dire? E magari quante volte avete pensato fosse vero, accompagnando la frase con un deciso cenno di assenso.
Ecco la novità: se sei un ragazzo sui vent’anni, magari con una laurea in mano e tanti anni di studio alle spalle, sentire questa frase pronunciata dall’ennesimo boomer con il posto fisso è un facile invito al v********o.
Ed ecco un’altra novità: dopo (almeno) tre anni di università, di voglia di lavorare ne abbiamo eccome, ma vogliamo anche essere pagati per il nostro lavoro.
Invece quello che succede in Italia è che dopo la laurea, se sei fortunato un datore di lavoro ti propone un contratto da tirocinante, contratto notoriamente infelice. Primo perché il ragazzo per almeno sei mesi lavorerà senza che gli vengano riconosciuti i contributi. Secondo perché gli stipendi previsti dalle singole regioni per la retribuzione di un contratto di tirocinio sono molto bassi. (In Emilia Romagna un full time è retribuito minimo €450 e sta poi al datore di lavoro decidere se aumentare o meno questa cifra, ma non ha nessun obbligo a riguardo).
Ma ci sono anche i contratti a chiamata, le prestazioni occasionali, i contratti a progetto o direttamente i lavori in nero. Nulla, insomma, che ci dia una parvenza di stabilità e sicurezza.
Ma guai a lamentarsi, altrimenti ecco subito che qualcuno ricomincia con la solita cantilena: ‘I ragazzi di oggi non vogliono lavorare’.
Eppure noi abbiamo frequentato i corsi, dato tutti gli esami, abbiamo fatto le nostre esperienze. Abbiamo, insomma, rispettato le regole, senza che mai nessuno ci dicesse che semplicemente non ci sono regole, in questa società.
E adesso ci sentiamo fregati.
Fregati da un sistema universitario che per anni ti tiene chiuso in una bolla fatta di concetti e nozioni, ma carente nella pratica, nei laboratori e nella concreta formazione dello studente. Concludiamo la nostra carriera universitaria che sappiamo tutto, ma non sappiamo fare niente e abbiamo già l’amara consapevolezza che quando questa bolla scoppierà dovremo fare i conti con qualcosa a noi del tutto sconosciuto: il mercato del lavoro.
Questa entità – così astratta, ma in realtà così concreta – ancora non sa nemmeno chi siamo, che già sa di non volerci e di non essere interessata a quello che possiamo offrirle.
Ma a differenza di quello che molti credono, la nostra voglia di metterci in gioco è tanta. Al punto che noi ‘ragazzi di oggi che non vogliono lavorare’ non sappiamo nemmeno cosa siano le opportunità perché non ce ne vengono date e ci accontentiamo di quello che ci viene offerto, perché non conosciamo altro.
Quindi no, non è vero che non vogliamo lavorare. La verità è gli anni passati a studiare noi li vogliamo vedere rendere. Rendere in un lavoro che sia affine ai nostri studi, che ci dia soddisfazione e gratificazione e soprattutto un lavoro in cui non ci sentiamo sfruttati e sottopagati solo perché abbiamo la sfortuna di essere giovani e quindi più soggetti alle prepotenze degli adulti
Nelle chiacchierate di lavoro con gli amici tutto è un susseguirsi di sguardi di comprensione, pacche sulle spalle e cenni di disapprovazione. Ripensiamo con malinconia a quando i nostri problemi orbitavano a questioni come prendere la patente o superare l’esame di diritto. Ora parliamo di “Mutuo sulla casa” o ‘Indipendenza economica’, senza nemmeno sapere che significato abbiano queste parole.
Penso al presidente Biden che qualche mese fa, commentando la difficoltà di alcuni imprenditori a trovare manodopera qualificata, ha semplicemente detto a quegli imprenditori: ‘Pay them more’ (pagateli di più).
Ecco signore e signori: forse il problema è tutto qui. Forse dovreste pagarci di più.
di Martina Santi
Scrivi un commento