Navighiamo in cattive acque: il caso Seaspiracy

Seaspiracy: esiste la pesca sostenibile? è illuminante ma non mancano le critiche

dal profilo Facebook di Seaspiracy

È uscito su Netflix il 24 marzo e ne hanno già parlato in tantissimi. Il docu-film Seaspiracy di e con Ali Tabrizi racconta il viaggio del regista in vari Paesi del mondo alla scoperta degli aspetti più oscuri della pesca commerciale per scuotere l’opinione pubblica su un tema così poco affrontato.

Veniamo così a sapere che il 90% dei cetacei è stato spazzato via dalla pesca. In particolare ogni anno circa 300.000 balene, delfini e focene vengono uccisi nelle reti da pesca. Ma non è tutto,  vittime sono anche le circa 250.000 tartarughe  che solo negli Stati Uniti vengono ogni anno catturate ferite o uccise dalla pesca intensiva e non va meglio agli squali.

Le stime affermano che muoiono circa 30.000 squali ogni ora: le loro pinne caudali vengono tagliate e vendute perché il loro possesso rappresenta un simbolo di prestigio in Asia. Per cui molto spesso vengono pescati per poi essere rigettati in mare dopo che vengono tagliate loro le pinne. Certe immagini del documentario sono molto crude perché mostrano nel concreto la caccia e l’uccisione di balene, delfini , tonni e altre specie. Alcune di esse muoiono perché vengono catturate involontariamente assieme alla specie ricercata durante la pesca. In questi casi la morte è dovuta alla pesca accidentale, o anche bycatch, che costituisce il 40% del pescato ed è provocata dall’utilizzo delle reti a strascico.

Pesca (poco) eco-sostenibile

Proprio le reti ci introducono in un altro argomento: l’inquinamento. Il 46% della plastica in mare deriva dalle reti da pesca usate appunto per la pesca a strascico, cosa che oltretutto distrugge i fondali oceanici (circa 4 miliardi di acri di fondali distrutti ogni anno per questo motivo). Ogni giorno vengono utilizzate reti da pesca in grado di avvolgere la Terra 500 volte. Si stima che più di 100.000 tartarughe all’anno nel mondo muoiano proprio a causa della plastica.

rete bottiglie

Tabrizi contatta una importante realtà come Earth Island Institute (organizzazione che rilascia l’etichetta sicura  ‘dolphin safe’) che dovrebbe garantire pratiche di pesca sostenibile. Ma esiste la pesca sostenibile? Le certificazioni sfortunatamente non sembrano veritiere. Ovvero il marchio ‘dolphin safe’ associato ad esempio ad una scatoletta di tonno, non garantisce che non sia morto nessun delfino per pescare quel tonno. Intervistato nel documentario riguardo agli osservatori dell’organizzazione presenti sulle chiatte, Mark J. Palmer dell’Earth Island Institute ammette infatti: “Abbiamo degli osservatori…ma esiste la corruzione”. Un’altra organizzazione che fornisce una certificazione di garanzia di pesca sostenibile è la MSC (Marine Stewardship Counsil). Tabrizi non riesce a ottenere un colloquio con questa società, ma gli esperti intervistati nel documentario dicono che “questo marchio non ha valore”.

Di corruzione si parla anche quando si scopre che dietro questo settore così redditizio c’è molto spesso la criminalità organizzata, in molti casi collaborante con le forze dell’ordine, come mostrato nel documentario. E’ il caso degli schiavi presenti sui 51.000 pescherecci thailandesi, sfruttati perché costituiscono manodopera a basso costo. Queste persone, disperatamente in cerca di un lavoro, spesso finiscono torturate e anche uccise sulle imbarcazioni.

Cambiare rotta

L’interprete della pellicola ci avverte poi che bisogna cominciare subito ad applicare seriamente le norme riguardanti la pesca sostenibile altrimenti nel 2048 non ci sarà abbastanza pesce per tutti. Oltretutto questo è un danno enorme anche – o forse soprattutto – per l’ecosistema visto che, anche grazie ai pesci, dagli oceani proviene l’85% dell’ossigeno che respiriamo ed essi regolano anche il riscaldamento globale.

barca thailandia

Il documentario è volutamente d’impatto e sul finale non manca una deriva molto drastica: secondo Tabrizi, infatti,  dovremmo tutti quanti smettere di mangiare pesce, e in generale anche tutte le altre specie animali, a favore delle alternative vegetariane. La causa animalista del documentario è molto nobile – così come anche quella ambientalista; tuttavia chiedere al mondo intero di smettere di mangiare carne e pesce è abbastanza irrealistico. Eppure questa sarebbe l’unica soluzione possibile, secondo il regista, visto che la pesca sostenibile non esiste.

Tutti d’accordo? Non proprio

Proprio queste ultime affermazioni hanno suscitato varie critiche e polemiche dato che vengono così danneggiate e denigrate molte società che già sono poco conosciute. Se il mondo intero adottasse un’alimentazione di soli prodotti vegetariani ci rimetterebbero “milioni di persone nel mondo che dipendono dalla pesca costiera” come afferma anche l’organizzazione Oceana.

La Plastic Pollution Coalition  – organizzazione che cerca di ridurre l’inquinamento da plastica – viene screditata nella pellicola e mostrata impreparata sulle domande poste dal regista. La MSC rivela di non essere finanziata da Unilever, come invece viene affermato nel film. Earth Island infine fa sapere che è stato scelto di distorcere grossolanamente le informazioni. Effettivamente Tabrizi nella pellicola sembra voler porre l’accento più sulle note negative delle sue indagini. Le persone delle varie organizzazioni intervistate vengono quasi messe in difficoltà con i quesiti che ricevono.

Insomma in molti non hanno apprezzato il modo in cui sono stati affrontati gli argomenti. Un esempio è quando Tabrizi parla con la biologa marina Sylvia Earle: la scienziata dice chiaramente che la pesca sostenibile su “larga-scala” non esiste, ma non parla della pesca in generale. Eppure non si dà molto peso a questa affermazione.

In ogni caso, quello che il documentario sicuramente riesce a fare è provocare una discussione sull’argomento. Un dibattito senz’altro positivo, visto che questo tema non viene affrontato spesso dai media e a livello sociale. Tante infatti sono le persone che affermano di non mangiare carne, ma di mangiare pesci: fanno forse meno tenerezza o li riteniamo semplicemente più distanti da noi? Sicuramente dopo aver visto Seaspiracy in molti avranno se non altro maggiore consapevolezza nei confronti del settore della pesca commerciale e di tutti i fattori ad esso collegati.

di Lorena Polizzotto

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