STOP ASIAN HATE: il vero virus è il razzismo

In un solo anno la comunità asiatica in America è stata vittima di circa 3800 atti di violenza. Fermiamo l'Asian hate a partire anche dal Cinema

Nell’ultimo anno c’è stato un incremento esponenziale di forme di violenza contro le comunità asiatiche. La rivista americana Vanity Fair testimonia che in un solo anno la comunità asiatica in America è stata vittima di circa 3800 atti di violenza. Quest’odio razziale ha avuto la sua massima concretizzazione nella strage di Atlanta avvenuta il 16 marzo, durante la quale un 21enne ha fatto irruzione in tre centri di massaggi uccidendo otto donne di cui 6 asiatiche.  Questa notizia ha attirato l’attenzione mediatica attorno alla violenza che la comunità asiatica sta subendo, scatenando iniziative  come l’uso dell’ hashtag solidale #stopasianhate.  

Razzismo asiatico in Italia

Anche l’Italia, purtroppo non è rimasta esente da questi fenomeni di razzismo. E’ finita recentemente sotto i riflettori la gaffe commessa da Michelle Hunziker e Gerry Scotti durante il noto programma Striscia la Notizia, nel quale i due conduttori hanno scherzato sulle caratteristiche fisiche e linguistiche del popolo orientale.  Questo episodio, anche se può essere considerato più leggero rispetto ad altri , testimonia però quanto ancora siano diffusi e radicalizzati nel nostro Paese  certi stereotipi.

Il primo atto di razzismo segnalato in Italia è stato il 24 febbraio 2020  in cui un uomo di origine cinese è stato colpito in testa con una bottiglia  da un 30 enne italiano, che usò  il paese di origine della vittima come giustificazione per l’atto compiuto. Altri fatti simili sono successi nel corso del 2020, come evidenzia.  La Stampa, a Firenze vengono presi di mira e insultati alcuni turisti cinesi , a Roma, fuori da un bar nei pressi della Fontana di Trevi è stato affisso un cartello  che impediva alle persone cinesi di entrare nel bar, il cartello recitava “A tutte le persone provenienti dalla Cina non è permesso di entrare in questo posto”.

Questi insulti razzisti sono stati rivolti anche a bambini e ragazzi: nel febbraio 2020 nel milanese, durante una partita di calcio, a un  13enne  è stata rivolta la seguente offesa, da parte di  un giocatore della squadra avversaria:  “Spero che tu prenda il virus come in Cina”.

 

I sostenitori di #stopasianhate

Molti sono personaggi noti che hanno mostrato solidarietà nei confronti della comunità cinese, diventando sostenitori dello slogan #stopasianhate.  Rihanna, Katy Kolmes, Katy Perry sono solo alcune tra le celebrities che sui social attraverso post e stories hanno  fatto appello ai propri followers a schierarsi contro le ingiustizie rivolte alla comunità asiatica, condannando l’odio e promuovendo la solidarietà.

Sostenitrice  dell’hashtag è anche la nota band sudcoreana BTS, che su Twitter si è espressa contro i numerosi crimini commessi nei confronti della comunità asiatica. In particolare nel lungo post, la band dischiarava essa stessa molte vola soggetta a discriminazione

“Ci ricordiamo diverse occasioni nelle quali abbiamo dovuto subire discriminazioni in quanto asiatici.Abbiamo sopportato insulti immotivati e siamo stati presi in giro per il nostro aspetto. Ci è stato persino chiesto come mai persone asiatiche sapessero parlare inglese. Non sappiamo esprimere a parole il dolore provato nell’essere stati oggetti di odio e violenze per ragioni simili”.

Riguardo l’assasinio di Atlanta scrivono :”Le nostre esperienze, però, non hanno conseguenze se paragonate agli eventi accaduti nelle scorse settimane. Ma quelle esperienze sono bastate per farci sentire impotenti e farci sentire meno sicuri in noi stessi. Quello che sta accadendo in questo momento non può dissociarsi dalla nostra identità di asiatici. Discuterne tra di noi con cautela ci ha richiesto del tempo, soprattutto per capire profondamente come esprimere il nostro messaggio. Ma è chiaro che le nostre voci devono parlare.”

Razzismo nel cinema: dalla yellow face al white-washing

Accade spesso, in modo molto preoccupante, di fidarci ciecamente e accettare come vera e obiettiva l’immagine di una realtà che ci viene mostrata sul grande schermo. A volte per disinteresse e comoda ignoranza, rinunciamo alla critica di qualsiasi contenuto per non comprometterne la piacevole visione.
Senza accorgercene però queste immagini in movimento che assorbiamo hanno un incredibile effetto su ognuno di noi, sulla nostra personalità e mentalità, e in un lasso di tempo cortissimo sono capaci di farci cambiare la nostra visione sul mondo.

Se la nostra società di oggi sta assistendo a una modernizzazione in termini di apertura e tolleranza, in gran parte lo dobbiamo al nuovo cinema moderno di questi ultimi anni.

Lo stesso però non lo si può dire del Cinema di qualche decennio fa. Il cinema americano influente, specialmente Hollywoodiano, è stato direttamente/indirettamente responsabile della diffusione e della creazione di pregiudizi e stereotipi offensivi nei riguardi di differenti gruppi etnici, che paradossalmente chiamiamo minoranze.

Eppure ci vengono raccontate storie di culture lontane e vicine come promozione di diversità e coesistenza. Ma spesso si tratta di una diversità talmente piatta e stereotipata che diventa molto difficile  rispecchiarsi in essa, finendo per diventare, in modo molto affascinante, una strumentalizzazione della diversità per una promozione della cultura occidentale e del sogno americano che solo poche eccezioni realizzeranno ribellandosi alla soffocante cultura d’origine.

Questi personaggi cliché oltre a rappresentare sotto un’unica immagine del tutto distorta un’intera popolazione così diversificata e complessa, come nel caso della popolazione asiatica – accomunata unicamente da una caratteristica fisica, come può essere il colore della pelle o la forma degli occhi – incarnano quasi sempre luoghi comuni palesemente razzisti.

Nel corso della storia del cinema Hollywoodiano si è spesso ricorso al whitewashing e alla yellow face per diverse ragioni. Non solo non erano permessi rapporti e relazioni romantiche per così dire interrazziali, nemmeno sul set, ma non era concepibile cedere ruoli protagonisti ad attori che non fossero White-Americans. Lo racconta il documentario Yellowface: Asian whitewashing and racism in Hollywood. 

Il motivo non era la scarsità di attori: già dalla metà degli anni ’30, le star di origine asiatica cominciavano la loro carriera per il grande cinema americano. Pensiamo ad Anna May Wong, prima attrice cinese-americana a raggiungere la fama internazionale, ma nonostante ciò confinata in ruoli stereotipati e secondari. Mentre quelli principali venivano affidati ad altre attrici pesantemente truccate da donne orientali.

Un fenomeno non così lontano da noi

Si potrebbe contestare quanto appena detto, in quanto riferito ad un’epoca e una mentalità ormai superata. Ma la pratica del whitewashing è purtroppo un fenomeno ancora attuale.

Gli attori di origine asiatica continuano ad essere scartati dai ruoli principali di film e saghe per la rappresentazione di personaggi storicamente asiatici. Al contrario per questi vengono selezionati attori come Emma Stone (per il film Aloha, 2015), Matt Damon (per The Great Wall 2016), Tilda Swinton (per Doctor Strange 2016), Scarlett Johansson (per Ghost in the Shell 2017) quest’ultimo film d’azione tratto dall’omonimo manga giapponese di Masamune Shirow.

Come se non bastasse oltre a una mancanza di autenticità nell’immagine di riferimento, sono ancora ricorrenti le stereotipizzazioni degli asiatici come quelli ‘diversi’, ‘strani’, ‘ottusi’ nel disperato tentativo di dare alla narrazione una nota divertente e imbarazzante allo stesso momento.

Quanti di noi hanno amato e tutt’ora sono ossessionati dal classico Colazione da Tiffany per la splendida e iconica interpretazione di Audrey Hepburn e quanti invece hanno disprezzato la performance di Mickey Rooney nelle vesti di Mr Yunioshi, il vicino di casa di Holly?

Un personaggio che ha suscitato moltissime polemiche nel corso degli anni tanto da essere ricordato come il peggiore caso di yellow face nella storia del cinema americano. Il ruolo di Mickey Rooney, con trucco giallo e denti finti, voleva essere una raffigurazione caricaturale di un uomo giapponese dal carattere eccentrico, parlava con un accento esagerato e incomprensibile, camminava in modo goffo indossando sempre un kimono e sbattendo sbadatamente contro gli oggetti.

Successivamente sia Rooney che il regista Blake Edwards si sono scusati a più riprese ma questo personaggio stereotipato continuerà a essere riproposto in tantissimi altri film e sketch.
Si potrebbe fare una lunghissima lista di film e serie, anche piuttosto recenti, dove seppure abbandonando la pratica della yellow face, i personaggi maschili asiatici non si allontanano molto dall’immagine di Mr Yunioshi, basti pensare a Lee Han della serie 2 Broke Girls e Mr Laslie Chow della trilogia Una Notte da Leoni. Oltre a sceglierli sempre di bassa statura si finisce sempre, quasi inevitabilmente, di fare sarcasmo sulla loro sessualità. 

 

Un discorso che purtroppo vale tanto per gli uomini, quanto per le donne. Le donne vengono frequentemente rappresentate come prostitute, di solito nei bordelli dei ghetti, o nei centri benessere. Difficilmente, però, le si incontra in altre circostanze. 

Per quanto riguarda i più giovani, invece, nei tipici teen movies ambientati nelle scuole riconosciamo gli studenti asiatici come quelli nerd e asociali, che alla mensa si ritrovano tutti insieme nel tavolo in fondo, probabilmente a parlare di matematica o a non parlare affatto. Anche in questi casi sono quasi sempre goffi, impacciati,un po’ imbranati e per questo bullizzati.

Fortunatamente le cose stanno cambiando: il mondo del cinema comincia a riflettere una immagine più inclusiva e libera da pregiudizi della comunità asiatica. Il successo mondiale della KPop, l’universo dei Manga giapponesi, le serie e i film coreani stanno aiutando a diffondere un’autentica e indipendente autodeterminazione di questi popoli, libera dalle barriere discriminatorie.

Un primo esempio di questo cambiato è Crazy Rich Asians (2018), il primo film dopo tantissimi anni ad avere un cast protagonista formato da attori asiatici di origine taiwanese, malese, cinese, coreana, sudcoreana, filippina, hongkonghese e giapponese.  È stato proprio questo fattore a renderlo quello che molti critici chiamano il successo che potrebbe cambiare Hollywood e, come molti altri sperano, la fine del whitewashing.

 

Anna Barbieri e Issraa Zorgui

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