Galimberti: “L’uomo nell’età della tecnica” ha perso il potere decisionale

Al Festival dello Sviluppo Sostenibile di Parma il filosofo porta la sua analisi sociale sulla psicologia e condizione umana durante l’era della tecnica

Il Festival dello sviluppo sostenibile a Parma, presso il cinema Crystal di Collecchio, ha ospitato un grande psicoanalista e noto filosofo che collabora dal 1995 con il quotidiano La Repubblica, Umberto Galimberti. Il festival anche quest’anno ha dato vita ad una serie di eventi che hanno come argomento principale la sostenibilità. Così, il celebre filosofo contemporaneo ci ha mostrato cosa la filosofia può insegnarci per vivere meglio in un’epoca così complessa.

Introdotto dal professore dell’università di Parma Alessio Malcevschi, Galimberti comincia il suo discorso basandosi su uno dei suoi testi più brillanti, “L’uomo nell’età della tecnica”, in cui viene ben descritta il tipo di era in cui viviamo, su quali basi si fonda e che tipo di uomo si è andato a sviluppare nel corso dell’età della tecnica; chiedendosi soprattutto che cosa sia la tecnica.

“L’uomo funziona nel mercato come produttore-consumatore, nella tecnica come profilo che risponde all’esigenza del suo servizio, della sua capacità funzionale. – spiega Galberti – Ed è così che l’uomo va fuori dalla storia. Lo dicono i filosofi già da 100 anni, l’umanesimo è finito: ha cominciato a dirlo Spengler col suo ‘Tramonto dell’occidente’, l’ha detto Heidegger che noi disponiamo sempre più di un pensiero calcolante e non abbiamo più un pensiero alternativo. Perciò dobbiamo cominciare a pensare che le cose siano cambiate rispetto alle idee che abbiamo in testa sulla tecnica come strumento. La tecnica è l’essenza dell’uomo. L’uomo, a differenza degli animali, non ha istinti. Ma cos’è l’istinto? Si tratta di una risposta rigida agli stimoli. L’uomo non ha istinti, si tratta di una condizione che non ci spiega come sopravvivere. Lo disse per primo Platone. Anche Hobbes diceva che mentre gli animali quando hanno fame si sfamano subito, l’uomo è affamato anche dalla fame futura, cioè sa di aver fame anche quando è sazio. Tommaso D’Aquino, Kant, Nietzsche, Arnold Gehlen hanno parlato dell’uomo senza istinto. Ma senza istinti come ha fatto a sopravvivere? Grazie alla tecnica è riuscito a sopravvivere. “

Tra scienza e religione

Galimberti continua il suo discorso mettendo in mostra la correlazione tra scienza e religione, mostrandoci come la mentalità di partenza circa il futuro sia praticamente la stessa: “Proprio per questo la contrapposizione tra scienza e religione è superficiale, in quanto la religione qualifica il tempo in questo modo: passato come male (peccato originale), presente come redenzione, il futuro come salvezza. La scienza pensa alla stessa maniera: il passato è ignoranza, il presente è ricerca, il futuro è progresso, si parla di cristianesimo laicizzato. Anche Marx, ed anche Freud, che scrive un libro contro la religione ‘L’avvenire dell’illusione’, pensa che le nevrosi ed i traumi, si strutturino nel passato, quindi è negativo, il presente è terapia, il futuro è guarigione. Tutto l’occidente pensa che il futuro sia positivo, come input cristiano della categoria della salvezza. In questo senso il cristianesimo è un inconscio collettivo e sopravviverà finché perdurerà. A mettere in questione questo modo di pensare – continua Galimberti, sottolineando un aspetto molto importante – sono i giovani di oggi. Il futuro per i giovani è diventato imprevedibile, una minaccia e quando il futuro non è attraente non retroagisce come motivazione.”

La mentalità che regge la tecnica nasce nel Nazismo

Galimberti, attraverso la sua analisi psicologica e filosofica, prosegue mostrando quando l’età della tecnica è iniziata davvero e che conseguenze ha portato nel tempo, fino ai nostri giorni. “Günther Anders ci dice che l’età della tecnica è incominciata nel nazismo. Nel senso che ha inaugurato la mentalità che regge la tecnica. Qual è questa mentalità?”. Per comprendere meglio su quali basi regga questa mentalità, Galimberti ci pone davanti un esempio molto crudo, ma che ci fa ben comprendere gli effetti disastrosi della tecnica: si parla del noto testo “In quelle tenebre” di Gitta Sereny.  “Questa scrittrice ha intervistato il direttore del campo di concentramento di Treblinka ed ha chiesto per 170 volte: lei cosa provava mentre faceva le cose che faceva? Franz Stangl non rispondeva. A Gitta Sereny viene un’illuminazione e capisce che lui non risponde non perché si vergogna, ma perché non capisce la domanda. A un certo punto lui risponde: ma scusi perché lei insiste nel chiedermi cosa provavo? Io non ero incaricato a provare qualcosa, io dovevo far funzionare il sistema e il sistema prevedeva che entro le 11 dovevano essere soppressi 3.000 persone, entro le 5 del pomeriggio 5.000 persone, il metodo lo aveva ideato Wirth e io lo facevo funzionare, io ero un ottimo funzionario. Ed ecco che siamo nell’età della tecnica, dove tu vieni giudicato non per la qualità del lavoro ma per la modalità con cui lo fai, se lo fai bene o male. La responsabilità è nei confronti dei superiori.”

Ma ancora, un altro esempio: “Anche Günther Anders per il New York Times fece una domanda al pilota che ha lanciato le bombe su Hiroshima e Nagasaki e ha chiesto un’infinità di volte che cosa aveva provato e lui ha risposto: ‘Niente, questo era il mio lavoro’. Lui ha obbedito bene agli ordini. Lo scopo finale o non ti è noto, o se ti è noto non è di tua competenza. Perciò, l’età della tecnica è questa cultura, non abbiamo la dimensione sociale del rispondere delle nostre azioni.”

Ma la cosa più inquietante, diceva Heidegger, “è che noi non disponiamo di un pensiero alternativo al pensiero calcolante: conti economici, conti tecnici, capiamo solo ciò che è utile, non cosa è bello, cosa è santo, ecc. Questo per dire che non possiamo pensare che la tecnica sia uno strumento nelle mani dell’uomo, noi possiamo scegliere se avere o no il cellulare, o il computer? La tecnica è già uscita dal suo habitat e ha già organizzato la comunicazione sociale, i ragazzi che vedono il mondo da 20 cm di distanza sul cellulare, lo hanno scelto? No, avrebbero una disfunzione sociale. Quindi la tecnica è entrata pesantemente nella società a decidere come ci si deve relazionare.”

Il concetto di emotività

Per concludere Malcevischi propone il tema trattato negli ultimi due libri di Galimberti: il concetto di emotività, di cui uno per i bambini. Riguardo a questo il professore dice che “bisogna insegnare le emozioni fin da piccoli, perché noi nasciamo con delle pulsioni. Se ci fermiamo a livello pulsionale diventiamo dei bulli. Bisogna invece portare i bambini dalla condizione pulsionale a quella emotiva. Quando parlo di emozioni, intendo la risonanza emotiva che noi abbiamo nei nostri comportamenti. La differenza tra corteggiare una ragazza e stuprarla ne è un esempio: sui giornali leggiamo spesso le risposte di questi ragazzi stupratori che dicono ‘e ma cosa abbiamo fatto?’, io sono assolutamente convinto che questa sia la loro verità, perché non hanno una risonanza emotiva dei loro comportamenti. Questa risonanza emotiva bisogna insegnarla, la scuola oltre a istruire, educasse anche. Le emozioni devono essere conosciute. C’è un repertorio molto utile a riguardo che si chiama letteratura, perché la letteratura racconta il dolore in tutte le sue declinazioni, l’amore, l’angoscia, dolore, noia, coraggio ecc. Queste cose quando le hai imparate e in un momento della tua vita arriva per esempio il dolore, tu conoscerai il nome. Se conosci il nome conosci anche le strategie per uscirne, perché hai la mente ben organizzata. Allora la scuola invece di riempirci di computer, dovrebbe riempirci di letteratura.”

In aggiunta a tale discorso, Galimberti conclude mostrandoci gli effetti negativi della diffusione dei mezzi tecnologici, dicendo che “la tecnica tecnologica non ci rende idonei, crea dei processi di derealizzazione, posso vedere Roma senza esserci mai stato, simulo azioni che non faccio, confondo il virtuale con il reale, tutti questi sono processi di desocializzazione. Posso parlare con un amico in Australia, poi magari non conosco gli amici di scuola, il vicino di casa ed è così che perdiamo quella relazione di prossimità a cui è limitata la nostra psiche. La nostra psiche non è all’altezza del mondo, ma è all’altezza del mondo circostante! Noi ci relazioniamo con il mondo che ci sta intorno, se muore una persona a me vicina ci sto male, se in Tv sento che muoiono di fame dei bambini per me è solo una statistica. Per non parlare delle patologie del cellulare: c’è una grande incapacità di tollerare la distanza, con un certo delirio di onnipotenza, posso controllare le persone che mi interessano dove sono, in che luogo vanno, chi frequentano”.

“Si sviluppa un’angoscia dell’anonimato: se non hai tanti likes, tanti followers, non ti senti nessuno, quindi, abbiamo esportato la nostra identità al riconoscimento degli altri, riconoscimento virtuale. – concluede il filosofo – Abbiamo perso il mondo interiore, che gradisce il silenzio, l’attesa. Mi creo un profilo, in base a questo profilo vengo riconosciuto a partire dal profilo, poi entro nel mondo reale e quel profilo non te lo riconosce nessuno e allora torni subito nel virtuale come un luogo dove ti ricavi qualche soddisfazione. Ma siamo davvero consapevoli di queste cose?”.

di Deborah Nisi

Scrivi un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*