Malignant: il ritorno di James Wan al genere horror è già cult?

Lasciatevi stupire da una storia folle, capace di ribaltare completamente le aspettative.

 

© 2021 Warner Bros. Entertainment Inc.

Dopo l’uscita in sala lo scorso 2 settembre, ora è arrivato su Infinity+ il film Malignant, l’horror più recente a firma di James Wan, che torna nel suo “habitat naturale”, dopo aver ideato cult come Saw – L’enigmista (2004) e trasformato la vera storia dei coniugi Warren in un franchise (The Conjuring) che dal 2013 continua a riscuotere successo. Nelle sale, il film – complice l’uscita in contemporanea negli Stati Uniti su HBO Max – non ha avuto molto successo, incassando solo 32 milioni di dollari nel mondo, contro un budget di 40 milioni.

Assieme alla Warner Bros., il cineasta australiano decide di distaccarsi dal mondo dei blockbuster come Aquaman e di realizzare una sorprendente pellicola. La sceneggiatura, firmata da Akela Cooper, rivisita le peculiarità di un giallo italiano, per creare un villain destinato a far parlare di sé. Una trama bizzarra, che ritrae un’originale battaglia fra Madison (Annabelle Wallis), una futura madre problematica e Gabriel, una presenza oscura, pronta a tormentarla e a prendere il controllo della sua vita. Con Malignant, Wan sperimenta e dimostra il suo intento di rinnovarsi, di fare qualcosa di completamente diverso dai film che l’hanno portato all’attenzione dell’industria, abbandonando soluzioni fin troppo usate per spaventare il pubblico, come la tecnica del “jumpscare”. Il risultato è una pellicola che a un certo punto accelera, muta e diventa completamente folle.

I temi della sorellanza e del male incarnato

© 2021 Warner Bros. Entertainment Inc.

Tra le tante idee messe sul piatto dal regista nel film, c’è anche quella di dare un graffiante messaggio, attraverso la storia della protagonista: in una realtà in cui una presenza oscura turba la sua mente, la persona che forse fa davvero più paura è il marito violento. Malignant fa riflettere sulle conseguenze che hanno le nostre azioni violente: il modo con cui trattiamo il prossimo può determinare il nostro destino. In quest’ottica è centrale il personaggio di Sydney, la sorella di Madison, interpretata da Maddie Hasson. È lei l’unica a essere sempre dalla parte della protagonista, sempre presente nei momenti di sconforto e assoluta disperazione, dedita all’ascolto e comprensiva. Un rapporto che viene minato da una sorta di terzo incomodo, da una voce nell’ombra che si spinge oltre la mente di Madison e occupa l’abitazione che dovrebbe proteggere le fondamenta del legame più incrollabile.

Gabriel è una nuova incarnazione del male: subdolo, insidioso, si esprime attraverso i dispositivi elettronici e si nutre dei corpi di persone che lo hanno deriso e disprezzato. Una condizione di vita estrema, che viene potenziata dall’approccio viscerale del cineasta alla materia, con una regia pulita ed estremamente dinamica. Wan decide di trattare della maternità e della sorellanza e costruirci attorno il nucleo fondante di un male in crescita, che non si limita esclusivamente al mondo plasmato da Madison, pieno di incertezze e paura di un futuro disastrato. Il killer stabilisce un modus operandi frutto di una rabbia incontrollata, in attesa di colmarsi quando potrà vivere nel corpo di una vittima dalla mentalità flebile e malleabile. Il territorio dell’horror subisce delle influenze singolari, con un tema che viene espresso con fermezza e con un dinamismo di contorno, che spiazza ed esalta i tratti di una trama che poteva risultare piuttosto prevedibile.

La creazione di Gabriel 

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La forza inespressa di un’idea di maligno che accumula poteri incredibili, incide sul registro adottato per quasi la totalità del girato, rivoluzionandolo. Le ispirazioni al giallo e alla costruzione di una tensione basata sui movimenti di Gabriel trasformano e prelevano l’aspetto fantastico di un universo in costante evoluzione, come quello dei supereroi. La nascita di una nemesi rigettata e rifiutata dalla società, che non comprende le dinamiche intime di un contesto familiare: Gabriel è furia cieca gettata a secchiate su schermo, il vero protagonista di questa pellicola, che prende posizione e definisce il contorno e le sfumature di personaggi primari sul ciglio di un burrone immaginario. Madison, Sydney, il detective Kekoa Shaw (George Young), incaricato di condurre le indagini sulle misteriose uccisioni ai danni di persone apparentemente innocenti, e la sua collega Regina (Michole White) vengono intrappolati in un gioco al massacro, che esplode violentemente in un disorientante terzo atto che pone lo spettatore di fronte a uno sviluppo colmo di sangue.

Tra confronti e scambi di battute che acquistano un sapore melodrammatico e una risoluzione finale ampiamente prevista sin dal prologo di Malignant, il film di James Wan preme l’acceleratore sulla follia e sulla furiosa battaglia, che diventa guerra di posizione, in un corpo riemerso e risorto: quello di una madre inizialmente disfatta e segnata dalla profonda mancanza di un figlio da crescere.

Citazioni e conclusioni 

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Malignant è un mash-up di citazioni e omaggi che vanno da La Metà Oscura di Romero al Vestito per uccidere di De Palma, passando per i thriller anni ’70 come Murderock Uccide a passo di danza, a cui va aggiunta la trilogia Basket Case di Frank Henenlotter e Profondo Rosso di Dario Argento.

James Wan si è ritagliato uno spazio in cui poter dare sfogo a tutto ciò che ama di più: la mescolanza di generi, l’amore per gli effetti speciali artigianali e l’ossessione per il corpo umano. Annabelle Wallis regge su di sé il peso del film e noi siamo con lei anche quando tutto diventa particolarmente folle. Il regista australiano, consapevole del rischio di deludere il suo consueto target di spettatori, decide di rischiare. Eppure, questo rischio, almeno per chi scrive, è valso la candela, poiché con la visivamente rutilante rivelazione finale, il sottoscritto – da estimatore di lunga data del genere horror – non può che elogiare Wan che, in una manciata di minuti, strappa l’applauso e riesce ancora una volta a lasciare la propria firma in un genere ormai stanco e con molto poco da raccontare.

di Matteo Guerra

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