Camera: “No” vigliacco ad Assange

Difendere un eroe della libertà di stampa? La Camera dice no. Mentre Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks, si trova dal 2019 nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, per aver svelato verità scomode ai governi di tutto il mondo.

Difendere un eroe della libertà di stampa? La Camera dice no. Mentre Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks, si trova dal 2019 nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh l’aula ha bocciato la mozione, presentata dell’ex 5 stelle, Pino Cabras, per dichiararlo rifugiato politico. La reazione all’esito della votazione è stata durissima, tanto da accusare il Parlamento dell’ennesimo “atto di vigliaccheria e subalternità alla democrazia di Guantánamo”, gli Stati Uniti.

Il testo, su cui il governo ha espresso parere contrario, è stato bocciato con 225 no, 22 sì e 137 astenuti. Ad astenersi sono stati i gruppi parlamentari di Liberi e uguali, Fratelli d’Italia e Movimento 5 Stelle. Ed è stata proprio l’astensione di quest’ultimo a destare maggiore polemica. Era il 2013 quando alcuni rappresentanti grillini incontrarono il fondatore di WikiLeaks presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra. “Abbiamo deciso di incontrare Assange perché con lui condividiamo le battaglie per la trasparenza dell’informazione, per la libera circolazione delle notizie e per la libertà di stampa, diritti che aumentano il livello di consapevolezza dei cittadini”, dichiararono sul Blog delle stelle.

Ma cosa è cambiato da quel giorno a oggi? Nella foto di quell’incontro si possono riconoscere tre volti noti a cui poterlo domandare: Carlo Sibilia, oggi Sottosegretario di Stato del Ministero dell’Interno, Maria Edera Spadoni, Vicepresidente della Camera, e Alessandro Di Battista, uscito dal Movimento dopo l’entrata nel Governo Draghi. L’unico che ha dimostrato coerenza su questa vicenda è stato proprio lui, che in un post su Facebook ha commentato come non si aspettasse l’astensione del suo ex partito.

A dichiarare il voto del gruppo pentastellato è stata la capogruppo in commissione Esteri, Iolanda Di Stasio che, pur esprimendo solidarietà ad Assange, ha ritenuto controproducente “vincolare il Governo italiano a promuovere atti di natura giudiziaria di competenza stretta di un altro Paese”, sottolineando “la possibilità di notevoli inesattezze fattuali, di cui non abbiamo una conoscenza certa, oggettiva e totale e che questa mozione possa, in realtà, basare le sue dichiarazioni di intenti su presupposti non del tutto verificati”. Un cambio di rotta che dimostra come, per l’ennesima volta, il Movimento stia svendendo la propria anima per un posto nel Governo – magari proprio per quello al Ministero degli Esteri. La verità è che “notevoli inesattezze” sono presenti solo nelle dichiarazioni dei vari deputati nel corso della seduta.

Massimo Ungaro di Italia Viva ha accusato la mozione di essere frutto di una narrazione unilaterale. Dalle sue parole è emerso un carattere di assurdità della richiesta, visto che il Regno Unito e gli Stati Uniti sono da sempre un esempio per ogni sistema giudiziario. È vero che non si sta parlando dell’Arabia Saudita, dove Bin Salman i giornalisti li rapisce nelle ambasciate e poi ne smembra i corpi, come nel caso di Jamal Khashoggi, ma questo non può offuscare la possibilità di abusi di potere da parte delle democrazie occidentali. Il renziano prosegue dicendo che Assange va giudicato “per informazioni diffuse a potenze non alleate che condizionarono le elezioni del 2016 degli Stati Uniti” come la Federazione Russa, accuse condivise dal forzista Valentini che ha domandato: “perché questo Parlamento si deve occupare di questa cosa?” – come se qualcuno stesse domandando alle istituzioni se Ruby sia realmente la nipote di Mubarak.

Nel 2016, in piena campagna elettorale tra Hillary Clinton e Donald Trump, WikiLeaks pubblicò le email interne dell’organo di governo del Partito democratico degli Usa. I messaggi rivelarono come il comitato avesse boicottato il candidato Sanders in favore della Clinton. Tra i documenti vi erano anche i discorsi a porte chiuse tenuti dai signori della finanza. Alle elezioni Hillary Clinton fu sconfitta e da quel momento Assange fu accusato di aver contribuito all’elezione di Trump. Nel maggio del 2017 si aprirono le indagini sul caso Russiagate, ovvero sulle presunte operazioni di influenza della Russia nelle elezioni. Dopo due anni di indagini, dal “Mueller Report” emerse come la Russia avesse interferito, hackerando le email dei democratici, sebbene senza prove di una cospirazione tra la campagna di Trump e la Russia. E come dietro le due false identità, DCLeaks e Guccifer 2.0, che fornirono le email a WikiLeaks, si nascondessero i servizi segreti del GRU. Il rapporto, però, non accusò l’organizzazione di essere consapevole di ciò, né spiegò come fosse possibile che Assange avesse annunciato la pubblicazione delle email il 12 giugno, mentre il primo contatto con DCLeaks avvenne il 14, e quello con Guccifer il 22, perché “le prove non erano sufficienti”. WikiLeaks e Assange non vennero incriminati, e l’inchiesta non portò a individuare un coordinamento tra la campagna di Trump e l’organizzazione di Assange, come alcuni deputati hanno cercato di far credere.

Simone Billi della Lega, invece, ha domandato cosa direbbe il Parlamento se il governo britannico esercitasse indebite pressioni sui giudici del nostro paese. Probabilmente acconsentirebbe in silenzio come fece quando, a fare pressioni sul governo italiano, furono gli Stati Uniti durante il caso Abu Omar, l’imam di Milano fatto sparire da ventisei agenti della Cia e torturato in modo brutale. Si trattò di una delle extraordinary renditions, le operazioni segrete con cui la Cia rapiva persone sospette di terrorismo e le trasferiva nelle sue prigioni clandestine. Per la prima volta un’indagine, in questo caso condotta dai procuratori Spataro e Pomarici, portò all’incriminazione di ventisei cittadini americani e di alcuni uomini del servizio segreto militare italiano. Eppure tutti e ventisei i condannati sono sempre rimasti liberi, grazie al rifiuto dei governi di estendere le ricerche a livello internazionale. E alle grazie concesse da due Presidenti della Repubblica, Napolitano e Mattarella, che costarono all’Italia la condanna dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Grazie ai cablo della sentenza è emerso come i diplomatici americani fecero pressioni sui politici, sia di destra che di sinistra. In uno dei file, si legge infatti come l’ambasciatore americano Ronald Spogli, parlando con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Enrico Letta, avvisò l’Italia che: “nulla danneggerebbe in modo più rapido e grave le relazioni della scelta del governo italiano di inviare i mandati di arresto”. Letta non ebbe nulla da obiettare, e la stessa posizione venne assunta l’anno seguente dal governo Berlusconi.

Il leghista ha poi dichiarato che non c’è nulla di cui preoccuparsi perché le carceri inglesi e americane non sono “carceri talebane”, ignorando l’esistenza di Guantánamo e Abu Ghraib, i lager americani. Questi rappresentano un attacco all’habeas corpus, ovvero al diritto di un essere umano a non essere imprigionato senza avere la possibilità di conoscere i reati di cui è accusato e di potersi difendere davanti a un giudice. Quando WikiLeaks pubblicò gli Iraq War Logs nel 2010, lo scandalo di Abu Ghraib era stato rivelato da ben sei anni dal reporter Seymour Hersh, ma i file fornirono una documentazione sull’arcipelago delle torture e su come fossero tollerate e ignorate dagli Stati Uniti. Era il 2011, invece, quando venne svelata la verità su Guantánamo. I file erano le schede dei detenuti: informazioni su 765 internati, tra cui almeno ventidue minorenni, come Omar Khadr, trasferito nella struttura all’età di sedici anni, e anziani come Mohammed Sadiq, malato di cancro, demenza senile e grave depressione. I detenuti erano soggetti ad atroci torture, che avevano lo scopo di far confessare i malcapitati. Quindi, che le grandi democrazie non possano macchiarsi di abusi è un’assoluta falsità come dimostrano i lager americani che fino a quando rimarranno aperti, non solo faranno perdurare le barbarie, ma rischieranno di fare da modello.

Un’altra posizione, condivisa da gran parte dei gruppi parlamentari, è stata quella secondo cui le rivelazioni fatte da Assange abbiano messo a rischio la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Le autorità americane accusano da lungo tempo WikiLeaks di “avere le mani sporche di sangue”. Premettendo che Assange contattò due volte il Dipartimento di Stato degli Usa: il 26 novembre 2010, prima della pubblicazione del cablo, e nell’agosto 2011, quando stava per uscire l’intero database con tutti i nomi, a differenza di quanto dichiarato dal forzista Valentini. Dal 2010 non è mai stato portato un solo esempio di persona uccisa, ferita, torturata o incarcerata a causa di quelle pubblicazioni. Nel 2013, durante il processo a Chelsea Manning, una delle fonti dell’organizzazione, il capo della task force del Pentagono, Robert Carr, testimoniò di non aver trovato un solo esempio di persona uccisa a causa di WikiLeaks. È incredibile come il Parlamento italiano, complice delle “guerre al terrore” americane, che, solo con la guerra in Iraq, hanno causato centinaia di migliaia di vittime innocenti e 9,2 milioni di rifugiati, appoggi il processo a un giornalista che non ha mai causato una sola morte. 

Tra l’ipocrisia del Movimento 5 Stelle e di Liberi e uguali, che in ogni occasione si ergono a paladini della libera informazione e poi, quando è il momento di agire, si astengono. Le falsità di Lega e Forza Italia-Viva, che ancora non si è capito se ignorino la verità o la manipolino sempre a proprio piacimento. E il vuoto politico del Partito Democratico, che ha votato contro senza dare alcuna motivazione. Giovedì si è persa un’occasione importante per fare un balzo in avanti in materia di libertà e diritti. L’Italia ha deciso di fermarsi, dimostrando “vigliaccheria”, sintomo della cattiva salute della nostra democrazia, e “subalternità” agli Usa, a discapito della sovranità e della credibilità internazionale del nostro Paese. Non garantendo la protezione a Julian Assange, l’Italia si fa complice di un piano senza precedenti che, se portato a compimento, avrà ripercussioni gravi sul futuro della libertà di stampa delle democrazie occidentali, e non solo.

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