Architettura anti-homeless: la situazione italiana e a Parma

Divisori tra le panchine e tubi di metallo che tagliano gli angoli delle strade: non sono pezzi di design, ma architetture pubbliche di emarginazioni sociali

Panchine scomode, marciapiedi appuntiti, spuntoni alla base delle vetrine, rastrelliere sotto i ponti. Sebbene visivamente interessanti, non parliamo di opere d’arte contemporanea: il report della community Will ha portato alla luce i dati italiani che mostrano un’intensificazione di ciò che viene definita architettura ostile o design sgradevole. Si tratta di una pratica sempre più attuata nei paesi occidentali e che mira all’allontanamento di atti vandalici o lesivi in nome dell’ordine pubblico.

Il grave e grande sviluppo del fenomeno

Le architetture ostili sono ormai diffuse nelle grandi città di tutto il mondo da decenni attraverso l’implementazione di modifiche al design urbano che mascherano una profonda radice di esclusione sociale. Lo stesso vale per il nostro Paese: in Italia, infatti, si contano circa 150 mila persone senzatetto (dati ISTAT di un censimento ancora in corso), vittime delle sempre più creative modalità di dissuasione dalla permanenza in luoghi pubblici.

I senzatetto non solo si ritrovano senza approvvigionamenti statali, ma si vedono anche negati gli spazi comuni che, come è facile immaginare, possono fare la differenza in situazioni di precarietà. In questo modo, si marginalizzano gli emarginati e, con loro, anche il problema della povertà. Le città dunque hanno interpretato come metodo difensivo l’adozione di architetture che complichino la vita delle persone, ignorandone il danno.

Infatti, l’architettura anti-homeless non causa disagi solo agli emarginati, ma anche ad altre fasce della popolazione: i turisti ad esempio, che vorrebbero rilassarsi momentaneamente su comode panchine sono costretti a consumare in bar, ristoranti, o forzati a rifugiarsi all’interno di edifici commerciali per trovare il comfort di cui necessitano. Questo fenomeno, denominato centrocommercializzazione dallo storico dell’architettura Iain Borden, non solo pone una netta distinzione tra ricchi e poveri, ma anzi allontana questi ultimi. La conseguenza è il daspo urbano, decreto che vuole combattere la criminalità e garantire la sicurezza, allontanando i senzatetto dai centri urbani e limitandoli alla vita in periferia.

Tutto questo perché la città non viene più pensata in un’ottica inclusiva, ma estremamente emarginante. L’ostilità è mirata anche al ritrovo di adolescenti in strade, piazze, luoghi pubblici, per evitare i danni collaterali legati al loro passaggio.

Milano, Parma, Bologna sono solo tre delle città nelle quali, aggirandosi, si possono notare sempre più architetture difensive. I dissuasori in acciaio davanti alle vetrine dei negozi di corso Indipendenza impediscono ai senzatetto di sostare davanti alle vetrine degli esercizi commerciali; le sedute pubbliche di Piazza Ghiaia a Parma sono state, per un periodo, tramutate in fioriere; le panchine rosse alla stazione di Bologna sono state munite di braccioli per evitare che i senzatetto ci si appisolassero sopra.

La città sfrutta il design a favore della propria immagine: si mostra pulita, moderna e priva di povertà, proponendo architetture esteticamente appaganti ma sempre più ostili ai senzatetto.

L’opinione di Dario Costi, docente di architettura

È necessario partire da un presupposto: le città sono in continua evoluzione. Esse rappresentano il frutto millenario di un contratto sociale e, secondo Joseph Richter, un mero accordo per lenire il dolore degli uomini. Possiamo considerare l’architettura ostile una sorta di clausola di questo contratto? E quanta consapevolezza c’è tra i cittadini, e quali sono gli effetti di questo tipo di ingegneria civile?

Secondo Dario Costi, professore ordinario presso la facoltà di Architettura dell’Università di Parma, complice l’espansione urbana a macchia d’olio dell’ultimo secolo, si sono generate delle distanze sociali che limitano la condivisione degli spazi pubblici. È dunque complesso e forse incongruo fornire una spiegazione logica a questi espedienti: “Il fenomeno dell’architettura ostile è da denunciare, ma allo stesso tempo non si può far finta che le problematiche da cui sorge non ci siano”.

La genesi di queste opere non è certo un’esigenza di esclusivo decoro. Anche il crescente fenomeno delle baby-gang, ad esempio, incide nelle scelte dell’amministratore di limitare l’impiego di ulteriore suolo pubblico. “Sono contrario a questo atteggiamento repressivo – afferma Costi – bisognerebbe invece ricreare funzioni di coesione sociale, cioè avere luoghi della città abitati ventiquattro ore al giorno. Di conseguenza luoghi più sicuri. Abbiamo invece città con tante zone d’ombra. Andrebbe ripensato completamente il sistema di organizzazione della città, con l’obiettivo di essere accoglienti e creare occasioni di socialità”.

Certo non è da trascurare l’aspetto culturale, ovvero la consapevolezza di far parte di una comunità e di aderire a una serie di principi fondamentali, fra cui il rispetto. Anche in vista di questo sarebbe necessario generare opere inclusive, che potrebbero da sole ovviare ad alcuni disordini sociali: “I fenomeni vandalici potrebbero essere tranquillamente smorzati dalla presenza delle persone”.

Come è altresì complesso stabilire il livello di accettazione e consapevolezza da parte dei cittadini, che vedono sorgere come funghi opere il cui scopo è nebuloso quanto artisticamente opinabile. Basti pensare al fenomeno della viabilità o della cementificazione selvaggia. “Quello è un esempio, a mio parere, di architettura ostile a cui la gente si è tranquillamente abituata. È più ostile questo tipo di occupazione o un bracciolo tra le panchine che evita alle persone di sdraiarsi? C’è poi una questione culturale che porta le persone a non avere consapevolezza della funzione della città“, conclude il docente.

Dunque, quest’architettura che opera in sordina potrebbe comportare un ampliamento delle differenze sociali. “Non v’è dubbio che vi sia una frammentazione sociale. Dal mio punto di vista, quello di un professore di architettura, la città può fare tantissimo per creare le condizioni di condivisione e ospitalità. Con la logica dell’architettura ostile si potrebbe arrivare a vietare le piazze alle persone, paradossalmente. Bisogna invece ottenere la condivisione degli spazi, responsabilità che spetta alle città“.

di Annachiara Magenta e Valerio Righini

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