Buon viaggio, James Webb!

Il 24 dicembre alle ore 14 circa (ora italiana), il nuovo telescopio spaziale è partito per la sua missione decennale, destinata ad esplorare i sistemi stellari in formazione, alla ricerca delle prime stelle dell'universo e di nuovi pianeti extrasolari, fino a guardare là dove nessun telescopio ha mai visto prima

Il telescopio spaziale James Webb, poco prima che cominciasse a dispiegare i pannelli solari, ripreso dall’ultimo stadio del razzo Ariane V, immediatamente dopo lo sgancio. (immagine: diretta NASA)

Mentre Babbo Natale già scendeva gli ultimi camini delle Isole Samoa Americane, non troppo distante, nel Centre Spatial Guyanais (CSG) della Guiana Francese, decollava un razzo Ariane V, che portava finalmente in orbita il nuovo telescopio spaziale: il James Webb Space Telescope (JWST).

L’aspettativa è molto alta per un telescopio che ha rischiesto più di vent’anni per essere progettato e costruito e che promette di rivoluzionare la cosmologia almeno quanto il suo predecessore, Hubble Space Telescope (HST).

Non solo più grande

JWST non è solo una versione più grande di Hubble. Il suo specchio di 6,5 metri di diametro è composto da diciotto “tasselli” esagonali – sei dei quali sono stati ripiegati all’indietro per poter entrare nello spazio limitato della stiva del razzo Ariane V – e che dovranno disporsi nella posizione corretta con precisione millimetrica dopo aver sopportato le vibrazioni e l’accelerazione del decollo.

Guido Horn d'Arturo, ideatore degli specchi segmentati
Specchi Segmentati – L’astronomo italiano Guido Horn d’Arturo (1879-1967) fu il primo, negli anni trenta del secolo scorso, a sperimentare specchi segmentati (a sinistra, Museo della Specola, Università di Bologna) che consentono di ridurre i pesi e correggere alcune aberrazioni ottiche. Questa tecnologia è oggi applicata a tutti i grandi telescopi, compreso il JWST. Lo specchio di Webb appare dorato all’occhio umano perché il suo rivestimento è ottimizzato per riflettere i raggi infrarossi, non la luce visibile. (foto, da sinistra: Giovanni Perini, Wikipedia, jwst.nasa.gov)

Il James Webb non ha neppure un “tubo” come i telescopi che ci sono più familiari. L’unica protezione di cui disporrà sarà lo scudo termico di forma romboidale grande circa quanto un campo da tennis. I suoi cinque strati di sottile materiale riflettente – pensate alla pellicola che riveste le uova pasquali: ecco, ci siete sorprendentemente vicini – hanno viaggiato “impacchettati” fino a due giorni dopo il decollo. Se hanno resistito alla rapida depressurizzazione della stiva di Ariane senza strapparsi, dovranno distendersi, accompagnati da quattro bracci telescopici, per disporsi nella configurazione necessaria a riflettere con la massima efficienza la radiazione solare.

Per guardare là dove nessun telescopio ha mai visto prima

La velocità della luce è finita. Guardare lontano nello spazio significa dunque guardare anche indietro nel tempo. Se si riesce a guardare abbastanza lontano, si può vedere l’inizio dell’Universo, o almeno l’epoca in cui si formarono le prime stelle e le prime galassie.

L’universo però si espande, e questo ha una conseguenza importante sulla luce che si trova ad attraversare uno spazio che non è sempre uguale a se stesso, ma si dilata. Mano a mano che attraversa questo spazio, anche la luce, a modo suo “si dilata”, ovvero la sua lunghezza d’onda aumenta (o, se preferite, la frequenza diminuisce). Gli occhi percepiscono la lunghezza d’onda come colore, e aumentare la lunghezza d’onda significa spostare il colore dal blu verso il rosso. Per questo il fenomeno è chiamato red-shift.

Redshift Cosmologico – Se il panettone è l’Universo e l’uvetta sono le galassie, allora la lievitazione è l’espansione dell’Universo: mentre il panettone-universo lievita, ogni uvetta-galassia vedrà ogni altra allontanarsi da sé, pur senza muoversi davvero. Un’onda luminosa che si trovi ad attraversare questo universo in espansione, finirà anch’essa “stirata”, ovvero la sua lunghezza d’onda aumenterà, cioè il suo colore si sposterà (shift) dal blu al rosso (red). (foto, da sinistra: Giovanni Perini – University of Michigan – Wikipedia/NASA)

Per gli oggetti più lontani il fenomeno è così imponente da spostare la maggior parte della luce prodotta da stelle e galassie nel medio infrarosso, a frequenze che la nostra atmosfera non lascia passare liberamene, ma riflette, diffonde o assorbe. Non importa quanto grandi e sofisticati siano i telescopi terrestri, per osservare certe frequenza l’unica opzione è anadare nello spazio.

Portare in orbita Webb è già una sfida

Uscire dall’atmosfera può non bastare. Il telescopio spaziale Hubble (HST), ad esempio, è in orbita dal 1996 e sicuramento ha già visto “più lontano degli altri”, ma non è progettato per osservare se non nel vicino infrarosso. Non avrebbe avuto senso fare diversamente perché HST è vicinissimo alla Terra, la quale riflette, assorbe e riemette la radiazione infrarossa che riceve dal Sole. Non c’è un modo efficace per schermare Hubble contemporaneamente dal Sole e dal riverbero della Terra: non si riuscirebbe comunque a fare osservazioni utili nell’infrarosso.

JWST non rimarrà attorno alla Terra, come il suo predecessore. Dopo un viaggio di circa un mese raggiungerà la sua orbita definitiva a più di un milione e mezzo di chilometri da noi, in un punto particolare – detto L2 – nel quale orbiterà intorno al Sole, rimanendo però sincronizzato con l’orbita della Terra. Là gli sarà sufficiente schermarsi dalla luce diretta del Sole per poter raggiungere la temperatura di lavoro (al di sotto dei -220°C) e raccogliere senza disturbi le radiazioni infrarosse prevenienti dalle regioni del cosmo più remote – nello spazio e nel tempo. Questa sua grande sensibilità lo rende anche adatto a studiare in dettaglio l’atmosfera dei pianeti che ruotano intorno alle stelle vicine a noi e i sistemi stellari in formazione, ancora avvolti da nubi di gas e polveri che fermano la luce visibile.

Punti di Lagrange
Punti di Lagrange – Studiando il moto orbitale dei pianeti, il matematico italo-francese Joseph-Louis Lagrange (1736-1813) individuò alcuni punti notevoli che oggi portano il suo nome: i Punti di Lagrange. Un terzo oggetto che si trovi in uno di questi punti percorrerà un’orbita stabile, sincronizzata con quella del pianeta. Il telescopio spaziale James Webb raggiungerà il punto di Lagrange L2. (foto: wikipedia)

La scelta di mandarlo così lontano non è priva di rischi soprattutto perché, a differenza del suo predecessore Hubble, James Webb sarà fuori dalla portata di ogni possibile missione di manutenzione: qualunque cosa andasse storta rischierebbe di compromettere irreparabilmente l’intera missione. Non sarà neppure possibile estendere la sua vita utile: una volta esaurito (in circa dieci anni) il propellente necessario a tenere l’assetto e il corretto orientamento per proteggersi dalla luce diretta del Sole, diventerà inutilizzabile. Anche se, a questo proposito, la NASA sta valutando la fattibilità di una missione automatizzata che almeno lo rifornisca di propellente.

Le novità tecnologiche di JWST sono tante, e le operazioni di messa a punto e test dureranno ancora alcuni mesi, dopo che avrà raggiunto la sua orbita definitiva. Le prime immagini cominceranno ad arrivare già nella fase di test, ma i primi dati scientifici sono attesi non prima della seconda metà del 2022. I sistemi stellari in formazione, i pianeti extrasolari e le prime stelle dell’universo sono solo gli obiettivi principali per i quali Webb è stato progettato. Cos’altro ci permetterà di vedere possiamo solo immaginarlo, o forse neanche quello. D’altra parte, se si sapesse già cosa scoprirà, non si chiamerebbe ricerca.

di Giovanni Perini

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