Le origini di Roma: miti e racconti antichi ancora attuali
Incontro con il professor Gianluca De Sanctis per parlare di Roma città aperta e multietnica. Una riflessione poi su quanto lo studio del passato sia in grado di parlare anche di noi, uomini del presente
La rassegna Seminari di Europa dell’Università di Parma – curata da Alessandro Pagliara, docente di Storia romana all’Università di Parma – giunge al quarto ciclo con il tema “Roma e noi”, con il sostegno del Comune di Parma, dell’Istituto Italiano per la Storia Antica, della Giunta Centrale per gli Studi Storici e della Fondazione Cariparma.
“Roma prima di Roma” è il titolo dell’incontro che ha visto ospite il professor Gianluca De Sanctis, che insegna storia romana all’Università della Tuscia di Viterbo e ha al suo attivo un numero davvero rilevante di lavori in atti di convegno, in miscellanea, oltre ad aver scritto tre importanti libri: La religione a Roma: luoghi, culti, sacerdoti, dèi; La logica del confine: per un’antropologia dello spazio nel mondo romano e il libro, da cui ha avuto origine la conversazione di questo incontro, uscito nel 2021 per l’editore Salerno e intitolato Roma prima di Roma. Miti e fondazioni della Città eterna.
Questioni cronologiche e identitarie
Quando fu fondata Roma? La questione cronologica è il primo dato su cui si costruisce questa trattazione.
Il professor Pagliara rammenta, citando diverse fonti letterarie, quali Quinto Fabio Pittore (260 a.C. circa – 190 a.C.), Lucio Cincio Alimento (249 a.C.), Marco Porcio Catone (243 a.C. circa – 149 a.C.) e Dionigi di Alicarnasso (60 a.C. circa – 7 a.C.), che si apre “un’enorme forchetta cronologica, in cui la data più alta è l’814 a.C., mentre quella più bassa è il 729 a.C. In questo arco di tempo si pone, quasi come termine medio, la cronologia diventata universale e universalmente accettata di Marco Terenzio Varrone, il 753 a.C.”
De Sanctis nella sua ultima opera si chiede se esista un’identità romana. I Romani non avevano questa parola e, come si legge nel libro, “per esprimere l’identità utilizzavano il termine Roma: una nozione quasi mistica in cui l’immagine della città fisica si fondeva con i suoi valori morali, con il modello politico e culturale che aveva imposto al mondo con la potenza del suo imperium, termine quasi intraducibile, a metà strada tra potere, comando e territorio sul quale questi si esercitano”.
I Romani riservavano una scarsa attenzione al tema della purezza etnica, così caro, invece, al mondo greco. “La romanità non era un dato biologico, che scorreva nel sangue di chi la possedeva, ma era piuttosto un merito culturale che si poteva trasmettere e acquisire facilmente attraverso la pratica e il rispetto delle regole. Si poteva nascere romani ma, cosa ben più importante, lo si poteva diventare”.
“Il loro modello identitario – ribadisce De Sanctis – è un modello che potremmo definire eccentrico, nel senso più autentico del termine, cioè questa è un’identità che si costruisce utilizzando l’alterità. Se noi dovessimo immaginare l’identità come una costruzione di mattoni, questi mattoni, nel caso dei Romani, non si trovano sul posto, ma i Romani li vanno a prendere da altri luoghi. Quindi, è un modello identitario estremamente interessante dal punto di vista culturale e che si pone agli antipodi del modello identitario caro agli ateniesi, e non soltanto, cioè all’autoctonia”.
Claudia Moatti, ne La nascita del pensiero critico nella Roma repubblicana, mostra qual è la differenza fra questi due modelli identitari. De Sanctis riporta le parole della studiosa: “In Atene tutto è a posto sin dall’inizio sia per quel che riguarda gli uomini sia per quel che riguarda i valori e la sua fondazione. La fondazione di Atene può essere considerata un paradigma. A Roma, invece, la grandezza è raggiunta nel corso di un continuo processo che parte, cresce, si sviluppa a partire da un atto fondativo imperfetto”. Quindi, commenta il relatore: “Gli ateniesi nascono già grandi e proprio perché sono nati già grandi non possono fare altro che tentare di congelare lo stadio aurorale, che li ha visti nascere dalla terra puri. Roma invece nasce in maniera imperfetta e per questo che deve crescere”.
La scenografia storica: il Latium vetus, antica regione di frontiera
L’Italia, come ci mostra l’immagine scattata nel 2017 da Paolo Nespoli, l’astronauta dalla Stazione spaziale internazionale, e presentata dal professore De Sanctis durante la sua esposizione, non occupa una posizione verticale, così come siamo abituati a pensarla, ma assomiglia a una striscia di terra, “una sorta di gancio calato nel Mediterraneo – dice De Sanctis – che si pone come un ponte fra est ovest, nord e sud, del Mediterraneo, di questo immenso lago salato, quasi per cucire insieme i confini di tre continenti, Africa, Europa e Asia”.
In virtù della sua posizione geografica, l’Italia è sempre stata un crocevia, dove si sono aggregati una serie di flussi migratori, di confluenze e di rimescolamenti.
A ciò si aggiunge un altro aspetto che dà ragione dell’alta varietà di storie, di culture e di lingue che si sono alternate nel nostro paese: l’irregolarità morfologica del territorio, che ha anche determinato un’ampia biodiversità, insieme a una pluralità di paesaggi.
Se confrontiamo tutto ciò con le ridotte dimensioni del nostro paese, non possiamo non notare la straordinarietà del fenomeno.
Non possiamo ricreare la trama dei flussi migratori e dei passaggi che si sono succeduti nel corso del tempo, sebbene, a partire dall’età del bronzo, dice il professor De Sanctis, “dalle nostre fonti emerge effettivamente l’impressione che ci sia stata una giungla etnica, costituita da tantissimi popoli diversissimi, una giungla etnica di cui gli storici moderni stanno cercando di ricostruire la fisionomia culturale, linguistica e geografica”.
Al centro di questa terra composita, affollata, c’è la regione che gli antichi chiamavano Latium vetus. L’area, nota come Latium vetus, si estendeva lungo la costa, dalla foce del Tevere fino al promontorio del Circeo, e internamente era circoscritta invece da una serie di propaggini montuose, preappenniniche, che non la chiudevano mai, per cui il Lazio era una regione di frontiera, fortemente interconnessa con le aree limitrofe: la Campania, la Sabina, l’Etruria ma anche l’Italia che sta al di là degli Appennini, l’Italia adriatica, e più in generale tutto il Mediterraneo. Quindi, ribadisce De Sanctis, “una regione di margine, di frontiera che ha conosciuto anch’essa, come in generale tutto il territorio della penisola, una serie di incontri, di scambi, di occasioni che non dobbiamo sempre immaginare pacifiche”.
Tuttavia, sottolinea il professore: “Si sono create anche delle fortunate ingegnerie culturali, tra le quali dobbiamo annoverare anche il caso di Roma. Anche in questa circostanza la geografia ha avuto un ruolo importante: i rilievi collinari, nei pressi dell’isolotto che è l’isola Tiberina, dovevano risultare estremamente appetibili per gli insediamenti umani perché chi li occupava poteva sfruttare i vantaggi logistici di trovarsi in alto e al tempo stesso vicino ad un passaggio del Tevere senza lasciarsi inghiottire dai continui paludamenti”.
Un groviglio di racconti: memoria collettiva e distorsioni
Citando Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che ne Il Gattopardo, spiega come un avvenimento, seppur recentissimo, perda in pochissimo tempo “il suo nocciolo genuino”, cancellato dalla “fantasia e dagli interessi”, De Sanctis spiega che la memoria individuale, come quella collettiva, non è un deposito dei ricordi ma un processo che manipola i ricordi trasformandoli e adattandoli alla nostra interpretazione, dipendente a sua volta dal modello del mondo, che ognuno si costruisce nel tempo, e al cambiamento di percezione, che varia con lo sviluppo individuale. Per cui, per dirla alla De Sanctis, “Il ricordo non è calco fedele dell’evento ricordato”.
In particolare, la memoria collettiva è fortemente ricostruttiva. De Sanctis ribadisce: “È soggetta, è aggredita da ogni nuovo presente, cioè deve continuamente fare i conti col nuovo presente per adattarsi, per rimanere in sintonia con i tempi”.
Tutto questo spiega che si tratta di una memoria che non pretende assolutamente di spiegare il passato. Dice De Sanctis: “Ci muoviamo nel campo delle auto rappresentazioni. Le auto rappresentazioni sono una cosa e non vanno confuse con ‘la verità effettuale della cosa’, come direbbe Machiavelli: sono due cose diverse”.
Inoltre, a questo primo livello di alterazione, che De Sanctis definisce “fisiologico”, se ne aggiungono degli altri, come “l’immaginazione dei poeti, le strategie identitarie di chi, controllando il presente controlla il passato, ma anche i tentativi degli eruditi e poi gli errori insiti nella trasmissione stessa dei testi che ci giungono e sui quali noi fondiamo le nostre ricostruzioni”.
L’inizio del racconto: dal poema virgiliano il mito di una città aperta
De Sanctis decide di iniziare dall’ottavo e dal primo libro dell’Eneide, raccontando di rifugiati che ospitano altri rifugiati.
Nell’ottavo libro, Evandro, alter ego di Enea, accoglie l’eroe troiano, narrando degli oppida precedenti, fondati da esuli divini, Giano e Saturno, che si aiutarono sviluppando insieme una nuova civiltà.
Nel primo libro, Didone, di cui si cita la celeberrima frase: ‘Non ignara mali miseris succurrere disco’, cioè ‘Io non ignara dei mali, imparo a soccorrere i miseri’, rassicura i naufraghi troiani di essere giunti in una terra amica e ospitale.
“Il messaggio – spiega De Sanctis – è che chi ha fatto esperienza dell’esilio non può rimanere insensibile di fronte a chi si trova a ripetere quella stessa esperienza. È per questo che Evandro è così accogliente nei confronti di Enea, come Giano accoglie Saturno, e Didone, a sua volta espatriata, accoglie gli scampati troiani; infatti, Roma sarà fondata a partire da un santuario di rifugiati. Si tratta di questo: è una sorta di reframe che attraversa tutto il poema virgiliano”.
“Con l’impiego di questi miti, che per loro stessa natura nessuno pretende che riferiscano la verità, – rammenta De Sanctis – la logica imperialistica di Roma aveva tutti i vantaggi di autorappresentarsi come una città aperta”.
Tuttavia, si precisa che questi miti non sono stati creati a tavolino da una cerchia di intellettuali tramite misurate logiche politiche. “I miti – spiega il relatore – sono espressioni dell’auto rappresentazione di un popolo e in quanto tali hanno una loro autenticità e meritano anche un certo credito. Anche quando noi riusciamo a dimostrare che si tratta di racconti finti, creati ad arte, raramente questo svelamento si accompagna ad un indebolimento della loro vitalità politica”.
Pertanto, chiarisce il professore: “Non dobbiamo meravigliarci che i Romani abbiano scelto di includere nella loro carta dei miti fondativi, accanto ad episodi brutali e violenti, come l’assassinio di Remo e il ratto delle Sabine, anche un racconto che è quello dell’asilo aperto da Romolo all’alba della città, che è perfettamente in sintonia con il carattere multietnico e composito del loro impero. Questo è un racconto che effettivamente rimane in sintonia con i tempi, che continua, nonostante il passare delle generazioni, a dire chi sono i Romani”.
Dal santuario del dio Asilo alla civitas romana
L’asilo, aperto da Romolo, si trovava in quell’area che oggi corrisponde a Piazza del Campidoglio.
Qui, secondo le fonti, in particolare Plutarco, Ovidio e Livio, accoglievano tutti, non facevano distinzione tra liberi e schiavi. Quindi, si tratta di un santuario aperto sotto la protezione di un dio, che Plutarco chiama semplicemente dio Asilo.
Perciò, i primi abitanti di Roma sono un gruppo di rifugiati, un gruppo di esuli, migranti, latitanti, avventurieri, schiavi, che fuggono dai padroni e che poi sarebbero diventati una civitas soltanto attraverso l’esperienza, il tempo. Precisa De Sanctis: “Sallustio, nel sesto capitolo del Bellum Iugurthinum, evoca la nozione di concordia. Sallustio dice che questa multitudo dispersa sarebbe stata amalgamata dalla concordia. Concordia è una parola preziosissima nel lessico politico romano; non è casuale che lui utilizzi questo termine”.
Il primo passo però di questa metamorfosi politica avviene nel momento della fondazione. Plutarco ne La vita di Romolo (11, 2-3) descrive il modo in cui Romolo avrebbe fondato la città. Ci racconta di un rito in cui si scavò una fossa di forma circolare, dove vi si gettarono una serie di oggetti di valore simbolico insieme a delle manciate di terra che ognuno prese dal luogo da cui proveniva e le mescolarono insieme.
“Quindi – spiega De Sanctis – questa fossa non è soltanto il centro geometrico del nuovo abitato, ma diventa, grazie al rito di passaggio descritto da Plutarco, anche il ‘deposito genomico’ della comunità. Da questo punto di vista noi potremmo dire che non sono tanto i Romani a fondare la città ma è piuttosto il contrario, cioè la fondazione della città, così come ci viene descritta dalla tradizione, è a fondare i Romani perché i Romani prima non esistevano. I Romani vengono al mondo in termini culturali contestualmente alla loro città, prima sono altro. Sono Albani, Latini ma, soprattutto, un mucchio di rifugiati, di disperati che si sono raccolti nell’asilo che Romolo ha aperto sul Campidoglio”.
Inoltre, “Romolo – come riporta De Sanctis, citando Livio – decide di lasciare il suo popolo nudo, non lo ammanta, non lo protegge con il mito dell’autoctonia, cioè sostanzialmente lo lascia libero dalle logiche etnogenetiche. I Romani non mentono mai su questa cosa. Non gli fa problemi il fatto di essere nati dal basso (ex infimo nasci), di avere delle umili origini. Mentre evidentemente le città vicine non perdonavano loro di essere così spudoratamente bastardi”.
A conferma di questa posizione De Sanctis riporta un brano tratto da Dionigi di Alicarnasso, in cui si racconta che Tullio Ostilio, come Romolo, non si nasconde, e delle origini della città ne fa un punto d’orgoglio, tanto che nel confronto con il leader degli Albani, Mezio Fufezio, dice: “Tale misura, che per noi è l’origine di molti beni, non ci arreca né biasimo né pentimento, come avverrebbe se avessimo sbagliato. Presso di noi ha il comando, prende le decisioni e gode degli alti onori non chi ha acquistato molte ricchezze né chi può mostrare molti avi indigeni, ma chiunque sia degno di questi onori. In nient’altro, infatti, se non nella virtù, noi crediamo che risieda la nobiltà dell’uomo. In virtù di questo spirito filantropico la nostra città da piccola è divenuta grande e da disprezzabile, qual era, è ora fonte di timore per i vicini”.
Pertanto, il mos maiorum è costituito di res novae, che, citando il professore, “esiste in una sorta di consustanzialità tra la tradizione e l’innovazione: questa è la grande intuizione che sorregge la formula alchemica dell’imperialismo romano, cioè portare, prendere, fare proprie le eccellenze altrui, laddove si riconoscono che ci siano delle eccellenze”.
In questa lezione c’è un messaggio buono anche per noi che siamo così lontani da quel tempo. Il messaggio riguarda il rapporto che noi dobbiamo stabilire con l’altro, con l’alterità. “Penso – conclude De Sanctis – che da questo punto di vista la favola dell’asilo possa funzionare anche come parabola. Differentemente da quello che credono gli alfieri dell’identitarismo, accogliere, integrare, mescolarsi sono azioni che non producono necessariamente indebolimento, smarrimento, perdita di valori. Questi racconti ci dicono che si può guardare all’alterità non come una minaccia ma come una risorsa e che le società umane prosperano, quando non si chiudono in sé stesse e non si dimenticano i benefici che derivano dalla mescolanza”.
di Michela d’Albenzio
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