“L’evento” e la necessità di non edulcorare

Dalla cronistoria di un avvenimento individuale a una lotta politica

Fonte: sottolineando.it

L’evento è un’autobiografia della scrittrice francese Annie Ernaux, scritto nel 2000 e pubblicato in italiano nel 2019. 

Tratto da questo romanzo, è uscito recentemente il film distribuito in Italia con l’infelicissimo titolo La scelta di Anne, sebbene nel libro l’autrice non parla mai di scelta e nemmeno si pone questo problema: lei non vuole un figlio e farà tutto quello che può per non averlo. Il film della regista Audrey Diwan è stato premiato con il Leone D’Oro come miglior film alla 78° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia dopo che al Festival di Cannes la Palma D’Oro era stata assegnata a un’altra storia di gravidanza, Titane di Julia Ducournau.

Evitare ogni attenuazione

La scrittura di Annie Ernaux è diretta, dettagliata e proprio per questo il suo libro fa emergere con forza la condizione della donna, non sottostando più all’obbligo del silenzio: «Può darsi che un racconto come questo provochi irritazione, o repulsione, che sia tacciato di cattivo gusto. Aver vissuto una cosa, qualsiasi cosa, conferisce il diritto inalienabile di scriverla. Non ci sono verità inferiori. E se non andassi fino in fondo nel riferire quest’esperienza contribuirei a oscurare la realtà delle donne, schierandomi dalla parte della dominazione maschile del mondo.»

1963: la scrittrice torna a immergersi in quel periodo della sua vita per scrivere questo libro. L’agenda e il diario di quei mesi sono punti di riferimento e prove necessarie per la ricostruzione dei fatti. Si cala in ogni immagine, fino ad avere la sensazione fisica di “raggiungerla”. Da anni girava attorno a questo avvenimento della sua vita prima di concretizzarlo in parole proprio per quello che noi oggi chiamiamo stress post-traumatico. 

Locandina del film tratto dal romanzo

«Leggere in un romanzo la narrazione di un aborto mi fa trasalire, mi getta in uno sbigottimento senza immagini né pensieri, come se istantanemanete le parole si facessero sensazione violenta. Allo stesso modo ascoltare qualunque canzone che mi abbia accompagnata in quel periodo, mi lascia sconvolta».

Annie E. rimane incinta durante l’università, strappa immediatamente il certificato di gravidanza: in questo gesto così sicuro c’è la determinazione di non voler rinunciare al proprio futuro per “quel tipo di malattia che colpisce soltanto le donne”. 

Cerca ogni modo per abortire in un paese in cui è illegale, provando da sé e poi con l’aiuto di una “Fabbricante d’angeli”. Durante quest’esperienza, Annie E. descrive minuziosamente l’estraniamento dall’ambiente in cui sta vivendo. É consapevole della sua esclusione dal mondo “normale” e che la sua vita non è più come quella degli altri studenti: ha perso la sua leggerezza giovanile. «In un certo senso, quell’assoluta incapacità di scrivere la tesi mi spaventava più della mia necessità di abortire. Era il segno indubitabile della mia invisibile decadenza. (Nell’agenda: non scrivo più, non lavoro più. Come uscirne?) Avevo smesso di essere “intellettuale”».

Il ruolo della figura maschile

Annie Ernaux, El Mundo

Questa lotta per poter continuare a studiare, per poter essere libera di disporre del proprio corpo come meglio crede, è coronata da una profonda solitudine, angoscia e disperazione. «Mi sentivo abbandonata da tutti.» Oggi come allora, durante questi eventi che vengono considerati “problematiche femminili”, la figura maschile cessa di esistere, se non per sentenziare come nel caso recente di Alfonso Signorini

Annie E. scrive: «I mesi successivi (alla scoperta di essere incinta) sono bagnati da una luce di limbo. Mi vedo per strada a camminare senza sosta. […] Fino all’estate scorsa ero riuscita, a costo di sforzi e umiliazioni – le accuse di fare la stronza o la preziosa – a non fare l’amore completamente». Già qui, da queste accuse, è evidente che alla donna non viene riconosciuto un potere decisionale sul proprio corpo, anzi viene resa colpevole per non acconsentire al desiderio sessuale dell’uomo. 

Il primo medico a cui si è rivolta la protagonista, le disse sorridendo contento: «I figli dell’amore sono sempre i più belli». «Una frase terribile» commenta la scrittrice. 

Poi scrive al ragazzo da cui era rimasta incinta: «Ho scritto a P. che ero incinta e non volevo tenerlo. Ci eravamo salutati incerti sul seguito del nostro rapporto e provavo una certa soddisfazione nel turbare la sua indifferenza, anche se non mi facevo nessuna illusione sul profondo sollievo che gli avrebbe arrecato la mia scelta di abortire […] Il solo a non sembrare interessato era colui di cui ero incinta, che ogni tanto mi spediva lettere in cui accennava con vaghezza a quanto fosse difficile trovare una soluzione (Nell’agenda: “Mi lascia a sbrigarmela da sola”). Avrei dovuto dedurre che non provava più nulla per me e che il suo unico desiderio fosse ritornare la persona che era prima, lo studente preoccupato solo degli esami e del proprio futuro. Anche se immagino di essermene accorta, non avevo però la forza di lasciarlo, di aggiungere alla disperata ricerca di un modo per abortire anche il vuoto di una separazione. Di fatto, occultavo la realtà con cognizione di causa, e se la vista di ragazzi che si divertivano in un bar o ridevano come matti in mezzo alla strada mi devastava – in quel preciso istante lo stava sicuramente facendo anche lui – proprio in quelle immagini trovavo un motivo per continuare a turbare la sua tranquillità.»

Quando Annie E., cerca qualcuno che la possa aiutare a uscire dalla sua situazione, trova invece figure maschili che abusano di lei:

«Nel cortile dell’università mi sono imbattuta in Jean T. uno studente lavoratore già sposato […] Ad un certo punto, con un giro di parole, gli ho detto che ero incinta probabilmente perché pensavo mi avrebbe potuta aiutare. Militava in un’associazione semiclandestina che lottava per la libertà di contraccezione dalla quale forse mi aspettavo un qualche tipo di supporto. Appena ha capito gli è venuta un’espressione di curiosità e godimento, come se mi stesse immaginando con le gambe spalancate, il sesso esposto e offerto. […] Voleva sapere di chi ero incinta, da quanto. Era la prima persona con la quale mi confidavo. Mi ha proposto di andare a cenare da lui. Non avevo voglia di ritrovarmi allo studentato in camera da sola. […] Dopo cena sua moglie è uscita con un suo amico per andare da qualche parte a prendere del materiale per la scuola in cui lavorava come maestra, io mi sono messa a lavare i piatti insieme a Jean T. Mi ha cinta tra le braccia, ha detto che avevamo tempo per fare l’amore. Mi sono divincolata e ho continuato a lavare le stoviglie. Jean T. mi premeva da dietro mentre asciugava i piatti.»

A che punto siamo con l’aborto oggi?

Fonte: neodemos

Provando a seguire la logica: sul piano personale la domanda che una persona può porsi è: «Sono o meno favorevole all’aborto? Se rimanessi incinta valuterei la possibilità di interrompere la gravidanza? Oppure per le mie credenze preferirei scegliere di portarla avanti?». È una scelta personalissima, in cui nessuno può entrare ed esprimere un giudizio.

La domanda che invece si devono porre uno Stato e una società è: «Sono o meno favorevole all’aborto clandestino?». Perché uno Stato non potrà mai impedire alle donne di abortire: le donne hanno sempre abortito e continueranno a farlo, lo stato può solo chiedersi se ha intenzione di garantire alle donne che scelgono di abortire di farlo in sicurezza. 

La legge sull’aborto (la 194) in Italia risale solo al 1978. Chiedendo alle vostre nonne e alle vostre zie potrete farvi un’idea di come fosse vivere in un paese che non garantiva di abortire in sicurezza. Sentirete parlare di ferri da calza, grucce, infusi di prezzemolo, botte nel ventre. È questa l’alternativa alla legge sull’aborto. 

«Un lunedì ho messo nella borsa anche un paio di ferri da maglia […] Non c’erano altre soluzioni. Avevo deciso di farlo da sola. […] La mattina dopo mi sono stesa sul letto e mi sono infilata il ferro da maglia nel sesso, piano piano. Andavo a tentoni senza trovare il collo dell’utero e non riuscivo a non fermarmi appena sentivo un po’ di dolore. Mi sono resa conto che da sola non ce l’avrei fatta. La mia impotenza mi gettava nella disperazione. Non ero all’altezza. Niente. Mi sembra impossibile. Piango e non ne posso più.»

Questa è solo una piccola parte che ha dovuto affrontare Annie E. e come lei tante altre donne. Siamo favorevoli a questo? In molti paesi non è cambiato nulla o comunque anche dove l’aborto è stato reso legale, è ancora difficile accedervi: in Italia il 70% dei ginecologi è obiettore di coscienza.

di Elisa Carlino

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