The Adam Project
Il viaggio nel tempo che riconcilia con sé stessi
È finalmente uscito su Netflix l’ultimo film diretto da Shawn Levy (Una notte al museo; Free Guy) con un cast che racchiude star affermate come Ryan Reynolds (Deadpool, Free Guy), Mark Ruffalo (noto al grande pubblico nei panni di Bruce Banner/Hulk dal 2012 nel Marvel Cinematic Universe), Catherine Keener (Essere John Malkovich, Scappa – Get Out), Zoe Saldana (Guardiani della galassia, Avatar), Jennifer Garner (30 anni in un secondo, Daredevil) e il giovane e neo-attore Walker Scobell, al debutto come co-protagonista.
A più di due settimane dalla sua uscita è ancora nella classifica dei titoli più visti sulla piattaforma, e questo è dovuto non solo alla sua anima adrenalinica, comica e spettacolare (effetti speciali ben fatti), ma e soprattutto per la storia e gli insegnamenti che il film dona, inaspettatamente, e che colpiscono lo spettatore per profondità e introspezione.
2050, il pilota Adam (Reynolds) compie un salto temporale per poter tornare nel passato e salvare la sua amata Laura (Saldana) da morte certa ma, per un errore di calcolo, sbaglia anno e capita nel 2022, dove incontra il se stesso più giovane e gracile (Scobell).
Tuttavia, l’incontro con il proprio io non è l’unica sorpresa, infatti, i suoi nemici del futuro lo inseguono nel 2022 e, in una lotta contro il tempo, i due Adam dovranno fare i conti con Maya Sorian (Keener), vecchia collega del padre (Ruffalo), che ha usufruito dell’invenzione di quest’ultimo per poter governare indomita nel futuro.
In una lotta contro il tempo e per poter fermare la furia di Sorian, Adam, insieme al suo giovane io, dovrà tornare ulteriormente indietro, nel 2018, a quando il padre stava ancora lavorando al progetto della macchina del tempo.
Tra salti temporali, azione a non finire, incontri inaspettati e combattimenti spettacolari, chi l’avrà vinta?
Che cosa ci insegna il viaggio nel tempo?
Almeno una volta nella vita ognuno di noi ha pensato a che cosa avrebbe voluto dire al proprio io del passato e le variabili più comuni sono due: o insultarlo per le sciocchezze fatte in giovane età o rimproverarlo per gli errori commessi lungo il proprio cammino.
In entrambi i casi, comunque, a rimetterci sarebbe il passato, perché la nostra versione del futuro ci fa sembrare più adulti, più maturi e per certi versi anche più sicuri di noi stessi.
Tuttavia, la realtà delle cose non è così e questo film porta con sé numerose riflessioni che scandagliano e scompigliano tutto ciò che ci siamo predisposti nel nostro ipotetico incontro con il nostro io più giovane.
Nella pellicola, infatti, l’Adam adulto non vuole rincontrare il proprio io bambino, perché lo vede come la propria brutta copia; un essere amorfo, troppo immaturo e che non ha ancora capito come sopravvivere alla vita e ai bulli. Vorrebbe scappare dalla propria identità giovane, ma per caso o per fortuna, si ritrova a dover fare i conti con quest’ultima, cercando di andarci d’accordo. L’incontro-scontro tra queste due realtà porta a una nuova visione anche di ciò che Adam è stato, con una riscoperta di molti lati positivi che, con la crescita e “il divenire adulti” ha perso: “l’indurimento” del carattere, dovuto alle difficoltà della vita, ha portato alla perdita del proprio io e della propria identità, creando un Altro Adam che ha preso il posto di quello che è stato.
Tuttavia, quanto il passato può racchiudere il nostro vero io? Questa è la domanda principale che si nasconde tra le pieghe del film, e questa è la realizzazione a cui l’Adam adulto arriva nel corso dell’avventura temporale.
Spesso la vita è dura con noi, fin troppo, e per difenderci ci creiamo delle armature che ci isolano dal mondo e che ci permettono di andare avanti. Iniziamo a credere queste siano le nostre vera identità, le migliori versioni di noi stessi. Tuttavia, non ci rendiamo conto che quelle stesse armature che ci siamo costruiti per difenderci dal mondo, ci hanno isolati da esso e da noi stessi. È qui che interviene il passato che, come il giovane Adam fa con il proprio io del futuro, ci tende la mano, ci abbraccia e ci dice che va tutto bene. Proprio nel momento in cui ci rendiamo conto che abbiamo perso noi stessi, e che per poter andare avanti dobbiamo andare indietro, l’armatura si incrina e si spezza, facendoci fare pace con noi stessi, permettendoci così di riscoprirci e amarci in tutti i nostri aspetti.
Il film è una carezza e rappresenta un viaggio commovente e introspettivo nel proprio passato: un incontro con noi stessi che abbiamo rimandato troppo a lungo.
Quanto spesso avremmo bisogno di un abbraccio dal nostro io del passato?
di Erika V. Lanthaler
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