Il carcere e la città: una rete vincente è possibile

All'Università di Parma un incontro per parlare di sistema penitenziario e città, ripercorrendo le sue riforme tra miglioramenti ma anche, purtroppo, molti passi indietro: come negli anni '90 con la Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi e poi la "ex Cirielli”. Il carcere oggi è una struttura “autopoietica”, sempre più distaccata dall'esterno

Il carcere viene tendenzialmente considerato una realtà scomoda, lontana e talvolta invisibile. Uno di quei posti destinati a chi commette errori più o meno gravi. Quando sentiamo o leggiamo la notizia di un crimine commesso, di impulso speriamo che quella persona finisca in carcere e magari ci resti più tempo possibile. Eppure, il carcere è una realtà molto più complessa e non può limitarsi semplicemente a punire. Almeno teoricamente, dovrebbe avere una funzione riabilitativa e rieducativa che in Italia non sta funzionando, i dati parlano chiaro. Come riporta Il Sole 24 Ore, i detenuti affidati al circuito carcerario nel 68% dei casi tornano a delinquere, mentre il tasso di recidiva tra chi è affidato a misure alternative si ferma al 19 per cento.

Il seminario “Le infinite riforme. Il carcere e la città”, organizzato dall’Università di Parma, cerca di sdoganare alcuni luoghi comuni, di tracciare sinteticamente la storia di questa istituzione e di capire cosa le città possano fare per questa realtà.

“Le infinite riforme” che non risolvono il problema

Il professor Giuseppe Mosconi, docente di sociologia del diritto penale all’Università di Padova, ha cercato di sintetizzare alcune delle principali riforme che hanno interessato il sistema carcerario. A partire dal 1975 diverse leggi hanno cercato di far fronte ad una situazione estremamente complessa ed intricata, caratterizzata dall’allarme crescente per l’incremento della criminalità organizzata e da una particolare crisi della pena detentiva. La critica della pena detentiva si fonda non solo su considerazioni di carattere umanitario, ma nasce proprio dalla constatazione degli effetti deludenti e addirittura controproducenti quanto ad efficacia rieducativa. Le riforme di questi anni si alternano tra aperture riformatrici e pesanti battute d’arresto.

Di fatto, con l’approvazione della legge 22 maggio 1975 n. 152, non è stato affrontato in modo adeguato il problema della sicurezza, ma è stata proclamata genericamente la missione di trattamento e rieducazione. A questa riforma sono seguite tante leggi restrittive, senza garanzie giuridiche.

Nel 1986 viene approvata la legge Gozzini che, seppur con alcuni limiti e contraddizioni interne, rappresenta un primo passo in avanti verso il cambiamento. La legge in questione introduce la possibilità di modulare e graduare la pena nel corso dell’esecuzione in modo da favorire il processo rieducativo del condannato, attraverso i cosiddetti “benefici” della Gozzini. I corsi di istruzione, di formazione professionale, le attività culturali e ricreative sono solo alcune delle novità introdotte. La legge Gozzini individua misure alternative per offrire maggiori possibilità di scontare la pena fuori dal carcere, sancisce la partecipazione del detenuto al trattamento e la possibilità di premiare il suo impegno.

I progressi raggiunti con fatica in questi anni vengono demoliti negli anni ’90 con le famose “leggi carcerogene”: la Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi e poi la “ex Cirielli” che limiterà fortemente le misure alternative appellandosi alla recidiva reiterata. Si ritorna così ad una nuova stretta con a capo il Ministro degli Interni Roberto Maroni, il quale approva una serie di riforme che talvolta fuoriescono dalle garanzie penali, come le famose autorizzazioni ai sindaci della facoltà di emettere ordinanze restrittive.

L’Italia tocca l’apice della repressività con la sentenza Torreggiani che, l’8 gennaio 2013, condanna lo Stato italiano per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU). Il caso riguarda trattamenti inumani o degradanti subiti da sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione.

In questo periodo i detenuti in Italia sono circa 70 mila. Diventa, quindi, necessario introdurre una legislazione volta a ridurre la pressione nelle carceri. In realtà le misure approvate saranno molto blande e, dopo un apparente successo iniziale, il numero dei carcerati tornerà nuovamente a crescere.

La pandemia mette in luce questo insuccesso e i magistrati si mostrano maggiormente predisposti ad offrire misure alternative: cala il numero di quel 60% di condannati presenti in carcere che avrebbero già diritto alle misure alternative ma risultano ancora reclusi. Escono 8.000 detenuti, ma poi riprende il processo di crescita. Un’infinità di riforme che di fatto non riesco ad offrire una soluzione concreta al problema.

Struttura e sovrastruttura del carcere

Rispetto a questa situazione è necessario ritornare ad uno dei motivi per cui è nato il carcere: controllare la marginalità. Di fatto quel sistema basato sulla retributività, sulla funzione rieducativa e sulla funzione di prevenzione generale e speciale si è dimostrato altamente inefficace.

“In realtà, il carcere non rieduca, il carcere stabilisce delle pene altamente impari pur a parità di tipologia di reato, il carcere non può essere retributivo, il carcere non intimorisce perché ben altre sono le motivazioni che portano al reato” afferma il prof Mosconi.

Al di sotto di questi tre paradigmi ciò che detta davvero legge, secondo il docente, è il cosiddetto “zoccolo duro del carcere” a sua volta costituito dal concorrere di almeno cinque elementi:

  • la cultura punitiva
  • una struttura autopoietica dell’istituzione, che tende continuamente a ridefinire se stessa e a riprodursi dal proprio interno
  • una struttura burocratica assolutamente inamovibile dal punto di vista della gerarchia, delle regole, degli interessi corporativi, della modalità organizzativa
  • una narrazione verso l’opinione pubblica del carcere indispensabile per la sicurezza
  • un universo comunicativo e culturale che mette in relazione il linguaggio politico in una serie di retoriche che vertono sulla rassicurazione, sull’innovazione e sulla restaurazione.

Sulla base di questo sistema, che rimane tendenzialmente invariato, le riforme dei vari partiti politici risultano totalmente inefficaci e incapaci di risolvere le questioni di fondo.

Come si vive realmente in carcere?

Giacinto Siciliano, direttore della casa circondariale di San Vittore, ha cercato di dare concretezza alle parole del prof Mosconi illustrando la sua esperienza di dirigente penitenziario.

Il primo esempio citato riguarda la nascita e la crescita di Bollate, un carcere totalmente nuovo sulla base di normative esistenti. Questo cambiamento si deve al dottor Luigi Pagano che pone al centro della sua azione un chiaro principio: la cella deve essere il luogo dove si va a dormire, ma non quello dove si vive. Crea, quindi, un carcere aperto, con luoghi dove si studia, dove si lavora, dove si fa sport, dove si vivono relazioni sociali e lo fa “semplicemente” rileggendo le riforme.

Luigi Pagano, da ilriformista.it

Anche ad Opera, carcere fortemente caratterizzato dalla presenza della criminalità organizzata, ci si rende conto che è necessario impegnarsi per cambiare, anche in contesti difficili e a prescindere dalla tipologia di detenuti.

“Sono belle le riforme e sono a favore della giustizia riparativa – sostiene il dottor Siciliano – ma mi trovo a gestire il carcere con quello che ho, dovendo affrontare numerose problematiche, come le persone incapaci di intendere e di volere che non dovrebbero stare in carcere. Siccome non c’è un posto dove metterle, di fatto continuano a stare in carcere, anche se non ci dovrebbero stare”.

Il carcere è diventato così il posto dove si gestisce tutto quello che non si riesce a controllare altrove. Due degli obiettivi principali che si pone il carcere sono la gestione della fase del processo, questione estremamente complessa per via dei lunghissimi tempi necessari, e poi il concetto della rieducazione, lavorare con le persone per aiutarle a capire che esistono delle regole per vivere in una società. Questo discorso deve avere necessariamente come fulcro la dignità delle persone che sono in carcere: i detenuti e anche chi ci lavora.

In quest’ottica bisogna considerare anche il fattore tempo, che in carcere è tendenzialmente fermo. Un tempo che scorre spesso uguale e questo probabilmente interferisce con la rieducazione. Inoltre, secondo il dott. Siciliano, c’è ancora troppo spesso la logica dell’adempimento: “Si fanno le cose semplicemente perché si devono fare, come nel caso dell’accoglienza”. Generalmente si fa il colloquio di primo ingresso e si raccolgono poche informazioni senza prestare sufficiente attenzione al riconoscimento della persona, all’inquadramento e all’orientamento all’interno della struttura.

Il carcere, in quanto comunità chiusa, può assumere così una valenza negativa o trasformarsi in un’esperienza positiva che aiuta a prendere delle nuove scelte e ad iniziare dei percorsi. Oltre al contesto e al clima, un carcere funziona se dispone di un grande pacchetto di offerte: dev’essere in grado di soddisfare i bisogni, di orientare le persone, di dare delle possibilità e di costruire delle abilità.  

“È importante provare a dare un senso al carcere che comunque c’è, è una realtà che fa parte della nostra società. A questo punto, assume una certa importanza il ruolo della città e della collettività, poiché tutti questi elementi esistono e hanno senso solo se il carcere non rimane confinato tra le sue mura e si integra con la struttura sociale. Bisogna far sentire alle persone che c’è un’attenzione nei loro confronti”, afferma il dottor Siciliano.

Giacinto Siciliano, ilgiorno.it

È il caso, ad esempio, di San Vittore che può contare su una città molto attiva e su un volontariato forte. Prima della pandemia sono state organizzate mostre, eventi teatrali e culturali per cercare di dare un senso al carcere. Si lavorava su un tema e poi si organizzava l’evento aperto non solo ai detenuti, ma anche alla città. Il dottor Siciliano, pur consapevole dei limiti delle istituzioni, sostiene che l’unica cosa possibile da fare sia impegnarsi, “avere voglia di dare un senso al carcere. Questo è possibile solo nella misura in cui si riesce a stabilire, con il territorio esterno, una rete che sia risorsa da entrambe le parti“.

Carcere-città, binomio indissolubile

Stefano Anastasia, ricercatore di filosofia e sociologia del diritto nell’Università di Perugia, si occupa di tutela dei diritti dei detenuti. Nel suo intervento pone un accento particolare proprio sull’indissolubile legame tra il carcere e la città, per varie ragioni.

Il carcere assume un’opera di contenimento e di accoglienza di quella gran parte della marginalità sociale che la nostra comunità esterna non è capace di gestire. Ne consegue un paradosso insito al sistema di rieducazione “perché si cerca di produrre una nuova forma di integrazione sociale per quelle persone che sono state espulse dalla società, attraverso la loro separazione dalla stessa società.  Queste persone stanno lì esattamente perché la città non li ha voluti”, sostiene il professore Anastasia.

Emblematico è l’esempio delle persone giudicate “non imputabili” che sono in attesa di un provvedimento di internamento. Il problema, nella maggior parte dei casi, è proprio l’incapacità dei servizi e delle strutture legate alla salute mentale di riuscire a seguire queste persone. Le istituzioni devono riuscire a farsi carico delle persone che hanno bisogno di una tutela della salute mentale. In realtà, quando il territorio non riesce si opta per la chiusura “perché il matto che ha commesso un reato continua a fare paura”.

Gli enti territoriali dovrebbero programmare politiche pubbliche sul territorio, servizi e attività, perché le carceri non possono più essere competenza esclusiva del Ministero della Giustizia.

“Non è la giustizia che deve chiamare il Comune a far quel che deve fare, ma è il Comune che deve sentirsi parte di questo sistema, perché chi è dentro il carcere è sempre un cittadino del territorio. Questa consapevolezza non c’è ancora né da parte della giustizia né da parte degli enti territoriali”, conclude Anastasia.

Il filo comune che unisce questi tre interventi è sicuramente l’idea che sia necessario rinnovare e riformare l’istituzione carceraria. Mosconi, Siciliano e Anastasia hanno espresso un giudizio favorevole verso la riforma Cartabia che si pone, tra gli altri, l’obiettivo di garantire tempi ragionevoli per i processi e di risolvere il problema del sovraffollamento e della violenza nelle carceri.

Eppure, come dimostra l’iniziativa del dottor Pagano a Bollate, è possibile attuare dei cambiamenti anche sulla base delle riforme già esistenti. L’intervento delle città è un altro punto decisivo e iniziative come quelle organizzate a San Vittore sono la dimostrazione di quanto il binomio territorio-carceri possa essere utile e fruttuoso da entrambe le parti.

Il carcere viene considerato così sotto un’altra ottica, come fase di transizione per i detenuti e di preparazione ad una nuova vita lontana dalla cella e dagli errori del passato. L’obiettivo finale è quello di rendere queste strutture un posto migliore grazie all’organizzazione di numerose attività, per cercare di ridurre i casi di recidiva. Questo reinserimento sociale è una responsabilità che riguarda tutte le istituzioni.

di Laura Ruggiero

Scrivi un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*