Il disturbo borderline di personalità

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La battaglia legale tra gli ex coniugi Amber Heard e Johnny Depp, iniziata qualche anno fa con l’accusa di diffamazione mossa contro la donna, continua ad essere molto chiacchierata. Shannon Curry, l’esperta specializzata in disturbo da stress post-traumatico, chiamata in campo dagli avvocati dell’ex protagonista di Pirati dei Caraibi al fine di stabilire lo stato di salute mentale in cui si trova la donna, ha affermato che la signora Heard potrebbe soffrire di disturbo borderline di personalità. Ma questo che cosa significa? Lo abbiamo chiesto a Giordana Algardi, psicologa psicoterapeuta.

Parlare di questo disturbo non è semplice, essendo una tematica complessa. La prima cosa da osservare è che il termine borderline è nato in seguito alla presa di coscienza del fatto che, in relazione allo stato di salute di una persona, la netta divisione tra nevrosi e psicosi era un po’ troppo dicotomica: vi erano caratteristiche che non appartenevano né allo stato nevrotico né a quello psicotico. Quindi “borderline, o stato limite, per indicare una situazione a metà tra nevrosi e psicosi” afferma la dottoressa Algardi.

Ciò che caratterizza questo disturbo, in relazione ai soggetti che ne sono toccati, è la “presenza di alcune caratteristiche comuni per quanto riguarda, ad esempio, i meccanismi di difesa prevalenti: nella struttura borderline vengono utilizzati meccanismi di difesa primitivi, intesi come i primi a svilupparsi durante lo sviluppo psicoaffettivo del bambino”. Uno di questi meccanismi sicuramente presente nella struttura borderline, ma anche in altri disturbi, “è la scissione, ossia l’incapacità di tenere a mente contemporaneamente le parti buone e le parti cattive” e quindi la conseguente difficoltà di coglierne la presenza sia negli altri che in sé. Uno degli aspetti più evidenti nel borderline è una “oscillazione senza continuità tra idealizzazione e svalutazione: in un attimo il soggetto con cui la persona borderline ha una relazione affettiva passa da essere colui che cura e protegge ad essere percepito come il maggior pericolo”.

La struttura borderline non va pensata come una condanna a determinati tratti, siccome è sempre una persona ad esserne caratterizzata ne consegue che alcuni soggetti possono distinguersi per essere ben adattati, adeguati ad un contesto sociale ma “con dei picchi emotivi critici molto forti, mentre altri possono avere un disturbo borderline più disgregato dove le aree intatte sono meno ed a rischio critico.” Ciò che si osserva nei soggetti borderline è la persistenza e la rigidità dei tratti: come in tutti gli altri disturbi “è la rigidità che fa la patologia“, afferma Algardi. Ognuno di noi ha tratti riducibili a vari disturbi della personalità, “si tratta fondamentalmente di osservarne la pervasività e la rigidità, è questo che da la dimensione della patologia“, conclude.

Indicare le cause alla base di questo disturbo è complicato perché l’eziopatogenesi delle strutture di personalità è molto complessa; inoltre a ciò va aggiunto un altro tassello: cosa incide maggiormente tra genetica e cultura? Se un soggetto allevato da una madre borderline sviluppa il medesimo disturbo allora quella è opera della genetica o dei modelli comportamentali della madre? “Se l’esistenza si riduce a quella persona in termini di allevamento, di prima educazione, allora si corre un forte rischio ma se accanto a quello vi è un ambiente stimolante, protettivo, allora l’ambiente vince sulla genetica”.

Si può riconoscere il disturbo borderline?

Fondamentalmente due sono i tratti comuni del disturbo borderline: il primo è il vuoto, “appartenente all’ambito dell’angoscia, inteso quasi come un vuoto preverbale a cui si può soltanto reagire. É un’angoscia di fondo che si ripercuote poi nelle varie relazioni. L’immagine più esplicativa è, forse, “il pianto a pieni polmoni del neonato lasciato solo”. Il secondo è la regolazione delle emozioni ossia un non saperle riconoscere, gestirle: “si fanno sentire in modo intenso, travolgente. Anche quelle vengono percepite come un pericolo”. Se si chiedesse ad un soggetto borderline di dare un colore al disturbo potrebbe rispondere, ad esempio, “rosso” in forza della carica di “aggressività che si portano dietro”, rivolta sia agli altri che a se stessi: sono infatti “comuni le azioni fatte per non pensare, sono comuni gli atti autolesivi, uso di sostanze stupefacenti, alcool e psicofarmaci o una vita sessuale a rischio“. Tutto vale per arginare questa sensazione di vuoto e sentirsi vivi. Sono comuni gli acting out, espressione di sentimenti mediante l’azione e non con il linguaggio. Sono frequenti anche “atti aggressivi nei confronti degli altri, maggiore sarà la relazione affettiva e maggiore l’aggressività” a causa di quanto detto prima: vi è una “netta e rapida oscillazione tra idealizzazione e svalutazione assoluta. Si passa dall’angoscia del vuoto al timore della vicinanza, questo accade perché nel borderline manca il confine; confine tra ciò che sono io e ciò che sono gli altri” afferma Algardi.

Il “timore di essere abbandonati può generare aggressività“: basta anche una “semplice azione, come uscire per una commissione, ma fatta in un momento di crisi nel soggetto borderline per scatenare questa paura e generare condotte aggressive.” Non s’intende ridurre l’aggressività alla sola violenza: certo, atti violenti possono manifestarsi ma non sono che una parte dell’aggressività intesa in un senso più grande. Questi discorsi vanno sempre inseriti in un contesto sicuramente soggettivo, non si deve pensare ad una regola oggettiva che valga sempre e comunque per qualsiasi persona borderline: se abbiamo di fronte qualcuno con un livello di funzionamento adeguato è difficile che possano manifestarsi aggressioni.

Il passo che intercorre tra l’ipotesi di trovarsi di fronte ad una struttura borderline e la certezza di avere a che fare con un tale soggetto richiede una diagnosi, fatta inizialmente con test strutturati e interviste strutturate: “s’indagano le aree dell’affettività, della gestione delle emozioni, le aree relazionali, il livello di consapevolezza e le capacità riflessive della persona che si ha di fronte”. Vengono anche indagati comportamenti di abuso – alcool, sostanze, psicofarmaci – poiché “una determinata condizione non deve essere causata soltanto dall’assunzione di questi ma deve, anzi, essere presente prima di essi“. Per diagnosticare il disturbo borderline inoltre” è necessario rivolgersi alle indicazione del DSM, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, si deve partire dall’osservazione della presenza o meno di due criteri principali di cui almeno uno deve essere presente. Se è così si procede poi all’osservazione dei criteri secondari, se anche qui ne sono presenti un numero sufficiente si procede all’osservazione dei criteri che hanno a che vedere con la durata dei sintomi. Per i disturbi della personalità i sintomi devono essere presenti in un tempo quantificabile in anni“. Se viene meno uno di questi dati allora non si procede con tale diagnosi.

Esiste una “cura”?

Dopo aver individuato il disturbo borderline non si ha davanti un’unica strada percorribile proprio perché, come detto in precedenza, si ha a che fare con soggetti dai vissuti differenti tra loro: è comunque possibile pensare ad un “approccio che comprenda sia un supporto farmacologico che un percorso psicoterapeutico. Quest’ultimo si focalizzerà soprattutto su di un lavoro d’integrazione, essendo la scissione uno dei nuclei centrali della struttura borderline”. Il lavoro si baserà “su ciò che si ha e su ciò che si è, si lavorerà per rendere possibile almeno pensare la possibilità della coesistenza di parti buone e parti cattive; ciò significa anche che il soggetto lavorerà per riuscire ad integrare dentro di sé parti buone e cattive”. Parallelamente a ciò dovrà esservi una “rieducazione delle emozioni: iniziare a capire cosa è accaduto, le emozioni provate e come gestire le ondate emotive improvvise”. Se, ad esempio, si viene colpiti da un forte attacco di rabbia si dovrà “lavorare sul perché è accaduto, cosa l’ha scatenata e poi su come canalizzarla per non rivolgerla esclusivamente o contro di sé o contro l’altro”.

Continua Algardi “cercare di contenere l’angoscia di vuoto, favorire il più possibile delle risorse introspettive, se presenti, ed eventualmente potenziarle il più che si può poiché è in forza di esse che si diventerà in grado di auto osservarsi, regolarsi, gestirsi da un punto di vista emotivo”. Inoltre vi sarà sempre il lavoro di integrazione. “Il percorso psicoterapeutico è estremamente difficile poiché da un lato se si è distanti si genera una sofferenza nel soggetto borderline mentre se ci si avvicina troppo si viene percepiti come un pericolo: mantenere la giusta distanza non è facile”.

Non si deve pensare questi soggetti come inabili alla vita che tutti facciamo, anzi lavorano, hanno relazioni amicali, famigliari; sicuramente è più difficile gestirle. “Se questa continua tempesta emotiva, questo continuo oscillare tra amore ed odio diventa ingestibile allora sì, li si rischia di compromettere tutte le aree di vita del soggetto. A quel punto il disturbo borderline assume una gravità diversa”. Non li si pensi però come soggetti che mostrano aggressività sugli altri in generale, “è difficile che aggrediscano colui che gli ha attraversato la strada perché di legame affettivo non ce n’è”. Queste persone idealizzano e svalutano, odiano ed amano, in forza della potenza del legame affettivo instaurato con il soggetto che hanno di fronte.

di Francesco Capitelli

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