“Sui generis”: tutti i gender gap che colpiscono le donne

L’ostacolo degli stereotipi verso l’uguaglianza di genere, divari che rappresentano l’origine e la causa degli impedimenti sulla lunga strada verso la parità

135,6. Questi sono gli anni che secondo il Global Gender Gap Report 2021 del World Economic Forum serviranno per colmare il divario di genere a livello mondiale.

Ad oggi, nessun paese ha centrato l’obiettivo, anche se il gap complessivamente colmato è pari al 67,7%. Tutto sommato, si potrebbe ritenere che il risultato raggiunto è quantomeno apprezzabile. Nel 2006, anno del primo Global Gender Gap Report, tuttavia, il divario di genere colmato corrispondeva a circa il 65%. Insomma, in 15 anni è cambiato davvero ben poco.

Si vuole, allora, porre un focus su un tema che potrebbe apparire superato nella nostra società che professa pari opportunità e uguali diritti. Donne e uomini possono studiare, partecipare al mercato del lavoro, raggiungere posizioni lavorative apicali, fino a – e non è banale se si guarda indietro a qualche decennio fa – esprimere il proprio voto, dedicarsi all’hobby preferito, esprimere la propria personalità con la scelta degli indumenti o dell’acconciatura. Siamo liberi di scegliere.

Ma quanto c’è di vero in tutto questo? È possibile dire che, oggi, ogni ostacolo alla parità tra i generi sia stato abbattuto e dimenticato o ancora qualche germe di disuguaglianza sopravvive, pronto a sbocciare ancora e ancora, fino a farsi albero dalle profonde e robuste radici?

Ed è proprio tra le radici della cultura in cui ci si sviluppa come esseri umani che si insinuano e trovano spazio, riproducendosi e sedimentandosi di generazione in generazione, visioni stereotipate dei ruoli che vengono attribuiti da tempi ormai remoti a uomini e donne, in cui questi si trovano spesso incastrati, consapevoli o meno, e da queste idee influenzati nei comportamenti, scelte di studio e di carriera, a volte opinioni e autovalutazioni.

Qual è, quindi, il ruolo degli stereotipi di genere? Secondo la neuroscienziata Gina Rippon, il nurturing effect, che incide massimamente nell’età infantile e adolescenziale, ha un ruolo basilare in quella che lei stessa chiama “pinkification” encefalica, con cui si riferisce al ruolo che gli stereotipi sociali di genere svolgono nell’influenzare lo sviluppo encefalico. Ciò è stato dimostrato osservando la concomitante attivazione di aree del cervello deputate allo svolgimento di alcuni compiti con quella dei circuiti neuronali connessi all’emotività e all’ansia da prestazione, “accesi” da suggerimenti esterni che alimentano l’idea che i maschi siano più capaci nell’esecuzione di quei precisi compiti.

Dal greco stereos, “duro”, “rigido”, e typos, “impressione”, si tratta di schemi mentali, scorciatoie per classificare l’Altro. Stiamo parlando di un’atrofizzata idea di genere che continua ad attribuire e riprodurre precisi ruoli, cui si connettono aspettative, comportamenti ritenuti “adeguati”, scelte di percorsi formativi e professionali, sedimentati nell’ambiente culturale in cui ci sviluppiamo come individui e in cui è possibile rinvenire il germe della disparità. Ma gli uomini possono occuparsi della famiglia e le donne possono guidare un’azienda – e viceversa – per cui una distinzione dei ruoli di genere “pre-industriale” potrebbe impedire alla parte femminile della popolazione di partecipare pienamente alla vita economica e produttiva, circoscrivendone e limitandone aspirazioni e opportunità.

Numeri e studi sugli stereotipi di genere e le disuguaglianze

Il Gender Social Norms Index 2020 dell’UNDP – Programma di sviluppo dell’ONU -, ha rilevato queste “barriere invisibili” che ostacolano in vario modo i percorsi di vita delle donne.

Emerge che l’88,35% di persone intervistate in 75 paesi presenta almeno un bias contro l’uguaglianza di genere; le donne con almeno un pregiudizio contro l’uguaglianza di genere – come quello per cui “gli uomini sono leader politici migliori delle donne” – è pari all’86,09%.

Ancora, dall’indagine Istat sui tempi della vita quotidiana emerge che in Italia il 53,7% degli uomini è d’accordo sul fatto che le donne siano più brave a svolgere il lavoro domestico, opinione condivisa dal 58,8% delle donne. Con le conseguenze che ne derivano.

Ma facciamo una distinzione: il sesso è un dato biologico, legato al possesso di caratteri sessuali primari e secondari, in base ai quali si viene classificati alla nascita come maschio o femmina, ed è l’identità sessuata; il genere, invece, è il “significato sociale del sesso”, è un prodotto culturale socialmente e storicamente situato. E l’identità di genere, quindi, concerne l’aderenza di un individuo rispetto alla definizione di “maschio” e “femmina”. Quindi sì, da una parte la natura, nature, dell’individuo, dall’altra il nurture, il nutrimento che riceviamo dall’esterno su “chi siamo”.

Da chi lo riceviamo? Innanzitutto, il linguaggio che utilizziamo ha una sua influenza. Sappiamo che le parole si traducono in pensieri e questi in azioni, contribuendo alla costruzione della realtà; nel 2020, la Carnegie Mellon University ha rilevato che, in 25 idiomi analizzati, sono molto frequenti le associazioni donna-casa/figli/famiglia e uomo-lavoro/carriera/affari.

È in famiglia che sicuramente troviamo il primo incasellamento in un frame culturale primario, in un fiocco azzurro o in un fiocco rosa; la nostra vita proseguirà tra bambole o macchine telecomandate, danza classica o calcio, a seconda che si sia, rispettivamente, femminucce o maschietti: “non sederti in quel modo!”, diranno all’una, “un vero ometto non piange!”, diranno all’altro. E i bambini riceveranno l’approvazione dei genitori quando si conformeranno alle aspettative di genere.

Infatti, secondo il Social Institutions and Gender Index (SIGI) Global Report 2019, indice multidimensionale del Centro per lo sviluppo dell’OCSE che misura la discriminazione subita dalle donne in 180 paesi, concentrandosi sulle cause, i più alti livelli di discriminazione si registrano nell’ambiente familiare, ciò dovuto per lo più a una diseguale distribuzione delle responsabilità.

La scuola dal canto suo rischia di riprodurre certe etichette, con insegnanti già di per sé socializzati ai ruoli di genere e in possesso di un curriculum nascosto influente, con esempi sui libri di testo che collegano certe attività alla madre e altre al padre, con pochi riferimenti a personaggi femminili rilevanti nelle varie discipline.

Senza dimenticare l’influenza di mass media e social media.

Il SIGI ha messo in luce un dato preoccupante: le limitazioni che le donne hanno nell’accesso alle opportunità assicurate invece agli uomini. Queste non colpiscono solo un valore intrinseco legato a diritti e libertà fondamentali, ma, da un punto di vista strumentale, determinano anche una perdita di reddito globale, che al 2019 ammontava a 6 trilioni di dollari statunitensi.

Il venir meno dell’apporto di metà della popolazione totale, insomma, priva l’economia mondiale non solo di forza lavoro, ma anche di visioni alternative, di talento, creatività, capacità di innovare. Si perde in capitale umano. Come? Ad esempio, matrimoni e gravidanze precoci limitano l’accesso all’istruzione e, conseguentemente, a posizioni lavorative maggiormente qualificate. Uno scarso livello di istruzione comporta, a sua volta, l’incapacità di fare scelte informate a favore del proprio reddito e del proprio benessere. Inoltre, la mancanza di interventi che favoriscano la conciliazione delle responsabilità della donna costituisce un impedimento alla partecipazione alla vita economica.

Guardiamo ora ad alcune aree specifiche in cui poi si manifestano i gap.

Le disparità e gli stereotipi nel mercato del lavoro

Di certo, negli anni il mercato del lavoro ha visto una sempre più crescente partecipazione delle donne, garantendo ad esse maggiore emancipazione e autonomia; in particolare, il tasso di occupazione femminile, per donne di età compresa tra i 15 e i 64 anni, è passato dal 55,4% del 2000 al 64,1% del 2019. Però, le donne sembrano “separarsi” e “concentrarsi” per lo più in occupazioni che, in tutto il mondo, sembrano essere ad esse riservate, come se le loro fossero non tanto abilità e competenze, quanto “attributi”; settori che hanno a che fare con salute, cura ed educazione, specchio dei compiti assegnati in ambito domestico e poi replicati nel mercato e cui magari si ricollegano paghe più basse e l’impossibilità di accedere o aspirare ad avanzamenti di carriera e posizioni di potere.

Questo è vero per tutti i paesi membri dell’Unione europea, dove le donne impiegate negli ambiti dell’istruzione, della cura e dei servizi sociali e degli altri servizi sono rispettivamente il 72,5%, il 78,5% e il 66,4%, contro il 27,5%, il 21,5% e il 33,6% degli uomini.

Guardando ai dati sul part- time, invece, secondo Eurostat al 2019 la percentuale di donne che nell’Unione europea svolge un’occupazione di questo tipo è di circa 24 punti percentuali superiore a quella degli uomini, con il 31,3% contro l’8,7% maschile. In particolare, il 27,3% di esse opta per un’occupazione a tempo parziale per motivi legati alla cura di bambini o di adulti con disabilità, contro solo il 5,7% maschile che compie questa scelta per le stesse motivazioni, tanto che la percentuale di donne occupate part-time aumenta all’aumentare del numero dei figli.

Le difficoltà già vissute dalla popolazione femminile sono amplificate dal “doppio turno” – o doppio ruolo – cui sono chiamate, una intersezione, e spesso interferenza, di responsabilità professionali e di cura che nel corso della pandemia si sono fatte più pressanti, ciò dovuto alla chiusura delle scuole, ma anche di centri diurni, ad esempio, e a crescenti esigenze di assistenza da parte di familiari o conoscenti; e tutto questo nonostante si sia potuto contare su un maggiore contributo maschile derivante dai vincoli imposti dalle misure di contenimento della pandemia, tanto che non si può più parlare di work-life balance, ma di work-life blending.

Le donne nei processi decisionali

L’equilibrio di genere nel processo decisionale e nella politica non conosce risultati migliori.

A livello mondiale, solo il 26,1% dei 35.500 seggi parlamentari sono occupati da donne e solo il 22,6% dei 3.400 ministri sono donne; in particolare, vi è una discriminazione nell’assegnazione dei portafogli, poiché quelli di alto profilo, come il ministero dell’economia o degli esteri, vengono assegnati per lo più agli uomini, sottorappresentati nell’assegnazione di portafogli socioculturali.

Quando ai vertici viene a mancare la prospettiva delle donne, però, le politiche che ne scaturiscono saranno pregiudizievoli per le stesse, in particolare per temi quali l’assistenza e l’istruzione.

Braun et al. hanno identificato dei fattori che aiutano a spiegare come mai le donne siano sottorappresentate nelle posizioni di leadership:

  • bias di selezione, per cui i maschi tenderebbero a sostenere altri leader maschi,
  • “fenomeno dell’ape regina”, per cui le donne leader di organizzazioni costituite per lo più da uomini, invece, tenderebbero a non sostenere il proprio sesso d’appartenenza
  • stereotipi di genere, che influenzerebbero la valutazione delle donne come possibili leader. Ma i pregiudizi non provengono solo dagli uomini.

Infatti, ad esempio, da un’analisi di quattromila offerte di lavoro è emerso che le donne rinunciavano a candidarsi quando gli annunci utilizzavano termini che in maniera stereotipata si associano agli uomini, come “aggressivo” e “ambizioso”; quella rinuncia veniva attribuita dalle stesse a motivazioni personali, quando, invece, subivano una discriminazione senza esserne consapevoli. E ciò è sostenuto dal fatto che le donne si candidavano a quelle stesse posizioni lavorative quando ad esse si associavano espressioni come “cura per il committente” o termini come “innovazione”.

I gap nella salute

Guardando alla salute, non è di poco conto che alcuni paesi continuino a perpetrare pratiche di selettività di genere prenatali, tanto che secondo lo United Nations Population Fund  l’aborto selettivo avrebbe portato alla mancata nascita di circa 140 milioni di bambine dagli anni ‘70 a oggi, causando una distorsione demografica; e poiché sono ritenute “incapaci di prendere decisioni affidabili e coerenti”, non sono rari i casi di sterilizzazione involontaria, spesso giustificata come un trattamento eseguito nell’interesse della persona, anche quando vi sarebbero il tempo e le condizioni per la donna di ponderare la scelta.

Come sottolineato dall’autrice Caroline Criado-Perez nel suo Invisible Women, il tema della salute ha a che vedere con qualcosa che va oltre l’integrità fisica, come lo stress dovuto alle diverse attività svolte nel corso di una singola giornata. Nel 2016, dei ricercatori canadesi hanno evidenziato le cause che si celano dietro gli esiti negativi che in misura maggiore rispetto agli uomini interessano le pazienti sottoposte a interventi cardiochirurgici, soprattutto quando di età inferiore ai 55 anni: semplicemente, le pazienti, una volta tornate a casa dopo la degenza ospedaliera, riprendono ad occuparsi del lavoro familiare, mentre gli uomini vengono accuditi dai parenti.

A ciò si aggiunga che non vi sono sufficienti sperimentazioni di farmaci sulle donne, perché – questa è la motivazione principale – il corpo femminile, soggetto alla fluttuazione ormonale, renderebbe la ricerca troppo onerosa; un’altra ragione sarebbe legata alla difficoltà per le donne di ritagliare del tempo per sottoporsi a questo tipo di test, ma, anziché adattare i programmi di ricerca alle donne, la sperimentazione semplicemente le esclude, con gravi conseguenze per la salute femminile.

Ancora, uno studio del 2018 di Wesolowicz e colleghi ha rilevato dei pregiudizi su donne e uomini, secondo cui le prime sarebbero propense a esagerare il dolore e a non dissimularlo, mentre i secondi tenderebbero a sottostimarlo; questo riduce la probabilità per i pazienti di ricevere un adeguato trattamento analgesico o una valutazione psicosociale. Difatti, le donne sono soggette, ad esempio, al trattamento della depressione più degli uomini perché più inclini, a causa di stereotipi e aspettative di genere, a riferire questioni emotive.

I gap nell’istruzione

Secondo i dati Eurostat, in tutti i paesi considerati dalla rilevazione la percentuale di femmine di età compresa tra i 25 e i 34 anni che ha completato con successo gli studi di livello terziario è sempre maggiore di quella maschile. Però, se si guarda ai laureati in discipline che rientrano nell’area STEM, quali scienze, matematica,informatica, ingegneria, industria manifatturiera ed edilizia, si rinviene una segregazione di genere che affligge queste aree di studio.

Infatti, tra tutti i paesi Ue solo il 17,7% degli specialisti ICT (Information and Communications Technology) è donna.

Una ricerca condotta negli Stati Uniti ha mostrato come fino ai sei anni tanto i bambini quanto le bambine ritengano che le donne, al pari degli uomini, possano essere “super intelligenti”; superata quell’età, però, pare sorgere qualche dubbio sul genere femminile proprio da parte delle bambine, fino a perdere interesse per giochi presentati come “per bambini super intelligenti”, ponendosi esse stesse dei limiti.

Ancora, se al primo anno di scuola primaria alla richiesta di rappresentare uno scienziato tra i disegni compaiono percentuali equivalenti di uomini e donne, tra i settenni e gli ottenni gli scienziati maschi cominciano ad essere più numerosi, finché tra i quattordicenni la proporzione è di quattro a uno per gli uomini: quando il sistema educativo ha già alimentato e fissato il pregiudizio.

Allora, la segregazione di genere in quest’ambito si connette a stereotipi di genere che determinano non solo la sfiducia sulle reali capacità delle donne, che sarebbero meno capaci degli uomini in questi ambiti, ma si nutre anche della difficoltà di trovare un equilibrio tra vita lavorativa e privata, dato che in questo campo vi è necessità di un apprendimento continuo, fondamentale per stare al passo con la incessante evoluzione del campo della tecnologia digitale.

A pagarne le conseguenze, intanto, è la società nel suo complesso, poiché si tratta di settori fondamentali per l’economia, in grado di creare posti di lavoro sicuri, ben retribuiti e di qualità; inoltre, la mancanza di diversità può ripercuotersi sulla riproduzione di pregiudizi di genere impliciti ed espliciti, tanto nei prodotti quanto nei servizi digitali. E si alimenta così l’idea di “scienza di genere”.

Quali strade possibili per eliminare i gap di genere?

Dal punto di vista educativo:

  • recupero di un’idea di educazione come ex-ducere, nel senso maieutico del condurre fuori dallo studente/figlio le reali attitudini e aspirazioni sin dalla tenera età, oltre il destino sociale di maschio e femmina
  • promozione dell’educazione alla differenza, anche a quella di genere, passando dall’aggiornamento dei programmi di studio, dalla valorizzazione del contributo femminile ai vari campi disciplinari, fino all’incontro con professioniste di ambiti a bassa concentrazione femminile, alla realizzazione di laboratori scolastici sull’analisi del linguaggio e all’uso di tecniche, come quella del role playing,che consentano lo scambio di compiti tra maschi e femmine.

Dal punto di vista della leadership e della partecipazione della donna alla vita economica e produttiva:

  • utilizzo delle quote di genere; potrebbero apparire come una forzatura dannosa per il merito, ma pare una soluzione capace di segnalare un’anomalia e sollecitare una riflessione e un cambiamento
  • prosecuzione delle nuove modalità di organizzazione del lavoro (smart working)
  • maggiore offerta di servizi di assistenza e prescolastici – qualificati e non troppo onerosi – che consentano alle donne una più agevole conciliazione tra i tempi lavorativi e di cura
  • città a misura di donna, che considerino non solo una mobilità connessa al lavoro, ma anche alle responsabilità di cura. Esempio virtuoso è quello viennese del complesso abitativo Freuen-Werk-Stadt I – “città delle donne che lavorano I” – costruito vicino a una fermata degli autobus, alle scuole e a un grande supermercato, mentre al suo interno è possibile trovare un asilo, una farmacia, un ambulatorio medico, uno spazio commerciale; vi sono aree comuni e spazi gioco visibili dai vari appartamenti, nei quali, tra l’altro, la cucina è posta al centro, invitando idealmente tutti i membri della famiglia a “partecipare” alle responsabilità domestiche.

Insomma, escludere la metà femminile della popolazione dalla vita sociale, da taluni percorsi formativi, dalle posizioni di comando e dal mercato del lavoro non è fruttuoso né per la donna in quanto individuo né per la società, per cui è il momento di dare un’accelerazione ad una cultura paritaria, cominciando dalla scuola e dalla famiglia, passando per gli ambienti lavorativi e politici.

“Quella delle donne – sostiene lo storico Eric Hobsbawn – è l’unica rivoluzione non fallita di questo secolo. Anche se non ancora compiuta”.

di Giada Malpasso

Questo articolo è stato realizzato per la rubrica Comunicare la scienza, realizzata in collaborazione con gli studenti del Master Cose dell’Università degli studi di Parma

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