Somministrare farmaci ai condannati per simulare mille anni di carcere: fantasia o realtà?
Per ovviare al problema del sovraffollamento carcerario una filosofa britannica propone di usare alcune sostanze psicoattive che potrebbero sostituire la detenzione creando una carcerazione mentale che altera il passare del tempo. Ma quali sono le possibilità, i rischi e i problemi etici?
Rebecca Roache è la filosofa britannica che, a capo di un team di studiosi di Oxford, ha proposto l’idea di sperimentare l’utilizzo di psicofarmaci e di tecnologie simili a quella del trasferimento mentale per ingannare la mente di un detenuto, inducendolo a pensare di aver trascorso mille anni in carcere anche se, nella realtà, sono trascorse solo poche ore.
Un’idea inquietante a primo impatto ma che può condurre ad importanti spunti di riflessione circa i suoi pro ed i suoi contro.
Sono altissimi i numeri che riguardano il sistema carcerario: negli Stati Uniti, ad esempio, nel 2014 erano più di 2 milioni le persone detenute, un numero che non è eguagliato da nessun’altra nazione al mondo. In particolare è stato l’inizio della guerra alla droga a far aumentare vertiginosamente la popolazione carceraria (l’aumento registrato è del 700%). Ospitare e nutrire i detenuti per i soli reati di droga fa sborsare ai contribuenti – in media – 51 miliardi di dollari all’anno. A tale somma vanno poi aggiunti tutti i costi da coprire per i detenuti per tutti gli altri reati. Sono tante le persone che vengono rinchiuse dietro le sbarre nonostante abbiano commesso crimini di poco conto (se paragonati a quelli più gravi, ovvio): si tratta di individui che meritano una punizione, ma siamo sicuri che il carcere sia la migliore?
Come affermato dalla Roache in un’intervista con Aeon Magazine, alcuni farmaci psicoattivi sono in grado di “far sentire qualcuno come se stesse scontando una condanna di mille anni”. Tra i suddetti farmaci ve ne sono alcuni – come l’acido lisergico o i funghi allucinogeni – capaci di provocare nell’individuo la dilatazione della percezione del tempo. Dal momento che il tempo è relativo, questi farmaci possono influenzare il meccanismo usato dai nostri neuroni per interagire tra di loro, facendoci credere che le ore stiano trascorrendo molto più lentamente di quanto lo stiano facendo nella realtà. Vi è, quindi, la possibilità concreta che alcuni farmaci psicoattivi (non ancora sviluppati) possano far vivere ai carcerati un’esperienza allucinatoria – paragonabile ad un sogno – in cui vivono settimane ininterrotte di prigione mentale.
Cosa ha portato Rebecca Roache ad ipotizzare l’utilizzo di pene distopiche?
Questa idea è stata partorita dalla filosofa britannica dopo aver appresso la sentenza emessa dal giudice circa un caso di omicidio avente come protagonista Daniel Pelka, bambino di 4 anni ucciso da sua madre, Magdalena Luczak, e dal suo patrigno, Mariusz Krezolek, nel marzo del 2014. Nei suoi ultimi mesi di vita, il piccolo è stato picchiato, affamato, tenuto con la testa sott’acqua fino alla perdita dei sensi solo perché la madre aveva voglia di “godersi un po’ di tranquillità”. Gli sono state negate le cure mediche, è stato rinchiuso in una stanza con un materasso sul quale avrebbe dovuto dormire e fare i suoi bisogni. Sottoposto ad umiliazioni continue e privato dell’affetto che ogni figlio merita, le sue urla – udite di notte dai vicini – non hanno potuto evitare il tragico epilogo di questa storia. Il giudice condannò a 30 anni di carcere entrambi gli assassini: un lasso di tempo troppo breve – secondo la Roache – ed una punizione “ridicolmente inadeguata“, ma che rappresenta la pena più severa nell’attuale sistema legislativo del Regno Unito. Ciò che fece molta rabbia alla filosofa fu il pensiero che i due criminali avrebbero ricevuto un trattamento troppo dignitoso rispetto a quello che riservarono al povero Daniel.
L’alterazione della percezione del tempo: un dilemma etico
Nel suo articolo Enhanced punishment: can technology make life sentences longer? (Pena rinforzata: può la tecnologia rendere più lunghi gli ergastoli?), Rebecca Roache propone di rivolgersi alla tecnologia per aumentare la severità delle punizioni senza andare a modificare drasticamente l’ordinamento legislativo. Tra le sue proposte vi è quella su cui verte il focus di questo articolo, ovvero l’alterazione della percezione del tempo, basata su diverse evidenze scientifiche.
Sono vari i fattori che possono indurre le persone a percepire lo scorrere del tempo più lentamente, a partire dal nostro stato emotivo, il quale può influenzare il modo in cui percepiamo il trascorrere del tempo. Uno studio del 2011, ad esempio, ha rivelato che il tempo sembra passare più lentamente quando le persone provano un sentimento come la paura, rispetto a quando provano tristezza o uno stato d’animo neutrale. Un altro studio dello stesso anno ha dimostrato ed evidenziato che la nostra percezione delle emozioni provate da chi ci sta intorno (intuite attraverso le loro espressioni facciali e i movimenti del loro corpo) influisce sullo scorrere del tempo sperimentato da noi: sembra passare più lentamente quando siamo in presenza di una persona che prova rabbia, paura o tristezza.
La percezione del tempo cambia anche in relazione alla nostra età: quando si è piccoli sembra scorrere più lentamente, andando a farlo in maniera sempre più veloce con l’avanzare degli anni. Non è ancora chiaro il motivo per il quale questo accade, ma vi sono alcuni esperti che ritengono che sia riconducibile all’attenzione ed alle modalità in cui le informazioni vengono elaborate dal nostro cervello. Il tempo sembra trascorrere più lentamente anche per coloro i quali assumono droghe psicoattive, per chi si impegna nella meditazione consapevole e quando la temperatura corporea è bassa. La scienza, sulla base di quanto già è stata in grado di spiegare, può in futuro progredire ulteriormente nella comprensione di questa area, come auspica la stessa Roache, secondo la quale “questa ricerca sull’esperienza soggettiva della durata del tempo potrebbe riformare le prigioni, facendo sì che i peggiori criminali possano essere inviati in istituti speciali progettati appositamente per garantire che le loro condanne possano passare nel modo più lento e monotono possibile.”
In linea teorica potremmo, quindi, punire le persone in un modo molto più rapido rispetto a quello della detenzione ma, così facendo, si andrebbe ad ignorare uno dei principali vantaggi della carcerazione: David Muhlhausen, esperto di giustizia penale, afferma infatti che tale prigione mentale non permetterebbe l’allontanamento delle persone violente dalle strade. Al contrario, i delinquenti non violenti (ovvero coloro i quali che fanno male principalmente a sé stessi) non dovrebbero nemmeno vederla la prigione. Secondo l’esperto è di vitale importanza allontanare dalla società soprattutto gli individui peggiori.
Un altro problema che si presenta parlando di farmaci di prigionia mentale è quello relativo alla loro sperimentazione: non essendo mai stati testati prima d’ora, non si sa nulla su eventuali effetti collaterali a breve e a lungo termine.
E’ bene ricordare che un tentativo di risolvere problemi andando a lavorare sul cervello delle persone è già stato fatto tempo addietro: gli Stati Uniti sono la nazione che ha effettuato più lobotomie di qualsiasi altro paese (50.000 indicativamente), salvo poi abbandonare tale pratica quando le autorità si sono accorte che stava uccidendo i pazienti e rovinando la vita di coloro i quali riuscivano a sopravvivere, rendendoli di fatto degli zombie.
L’isolamento forzato, tutt’oggi molto comune, ha anch’esso gravissime conseguenze a livello psicologico sull’individuo che lo subisce, rendendolo incapace di elaborare stimoli esterni ed “iper-responsivo” (come affermato da una ricerca del 2006 pubblicata sul Washington University Journal of Law & Policy).
Le accuse alla filosofa e la pena distopica: una punizione destinata a rimanere un’ipotesi?
La Roache è stata accusata di non interessarsi della rieducazione di coloro i quali vengono condannati, con l’intento di voler solo torturarli con queste tecnologie. A ragion del vero – come ribadito anche dall’autrice stessa – lei è una filosofa, non una scienziata. Non è, infatti, in alcun modo coinvolta nella sperimentazione di questi farmaci che, tutt’oggi, rimangono ipotetici. L’interesse suo e del suo team sta nel capire come la tecnologia e le pratiche punitive potrebbero, in futuro, interagire tra loro ed in quali modalità esse potrebbero farlo. A sostegno della sua tesi, porta un esempio tanto banale quanto riflessivo: se in futuro anziché usare i cellulari venissero impiantati ad ognuno di noi dei chip in grado di svolgere le stesse funzioni di uno smartphone, sarebbe eticamente accettabile rimuovere un simile impianto dai prigionieri? Da una parte i governi futuri – come quelli attuali, del resto – avrebbero interesse nel farlo per limitare la capacità dei detenuti di comunicare con il mondo esterno (giustificando, quindi, in questo modo l’eventuale rimozione). D’altra parte, tale rimozione comporterebbe un intervento chirurgico, da svolgersi verosimilmente senza consenso dell’interessato. Questo sarebbe difficile da giustificare e ci si potrebbe preoccupare circa dove l’intraprendere una tale direzione potrebbe portare: se accettata, ciò potrebbe aprire le porte ad altri utilizzi di trattamenti invasivi?
Un altro aspetto di notevole interesse è quello relativo a come i nuovi metodi di punizione (se accettati) si confronterebbero con quelli vecchi. Se in futuro saremo in grado di aumentare sensibilmente la durata media della vita, questo potrebbe permetterci di condannare i colpevoli a pene ben più lunghe di quelle a cui siamo abituati a vedere oggi. Tuttavia siamo sicuri che questa sarebbe una punizione più severa delle attuali condanne all’ergastolo? Da un lato, le pene detentive più lunghe sono più severe rispetto a quelle brevi, dunque una pena detentiva di 300 anni sarebbe sicuramente più severa di una di 30 anni. D’altro canto c’è da considerare che molti detenuti nel braccio della morte negli USA fanno appello affinché le loro condanne a morte vengano convertite in ergastoli. Come sottolineato dalla Roache, una pena più lunga è, quindi, vista dai condannati a morte come meno severa di una pena più breve seguita dall’esecuzione.
La simulazione di una detenzione straordinariamente prolungata intesa come forma di punizione estrema da infliggere ai colpevoli di super-crimini, dunque, potrebbe essere fattibile, ma quanto sarebbe utile? Far annaspare in mille anni di tormento un detenuto sarebbe una punizione estremamente dura, ma una vita intera da trascorrere tra quattro mura non la è già? Le testimonianze sul carcere che vengono rilasciate da detenuti ed ex detenuti sono concordi circa un fatto: la cella di una prigione diventa claustrofobica già solamente dopo due giorni di detenzione. Cosa potrebbe succedere ad una persona che finisce in isolamento mentale per secoli?
di Federico De Santo
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