Dall’Ungheria all’Italia: la sempre più precaria condizione dei sistemi scolastici

Gli scioperi degli insegnanti ungheresi e la vicenda di Elin Mattson, finlandese che ha lasciato Siracusa dopo aver visto la qualità degli insegnamenti italiani, riapre il dibattito sul sistema Scuola in Italia. La professoressa di liceo e attivista politica Roberta Roberti: "Fondi per la digitalizzazione non risolvono i disagi giovanili"

Nelle prime settimane di dicembre hanno fatto notizia gli scioperi che gli insegnanti ungheresi e l’opposizione politica al governo Orban avevano organizzato per protestare contro gli stipendi troppo bassi e le condizioni disastrose del sistema scolastico pubblico.

Il sistema scolastico ungherese non ha mai goduto di una forte stabilità, ma pare che nell’ultimo decennio la situazione si sia aggravata, riportandolo ad uno stadio primitivo che non si vedeva dall’epoca comunista. Gli insegnanti, molti volti della politica, ma anche i tanti studenti scesi in piazza, hanno sottolineato che senza la scuola non ci può essere un futuro. L’istruzione è alla base del mondo del lavoro, se questa viene a mancare, il sistema collassa su sé stesso. É dunque importante far luce su questo tipo di proteste, che puntano un faro su un problema che non esiste solo in Ungheria, ma in tutta Europa e, soprattutto, in Italia.

La situazione ungherese

Foto di JacobinMag

Ad oggi gli insegnanti ungheresi guadagnano in media tra i 520 e i 560 euro mensili. Questo può rappresentare un problema per i professori della capitale, che si trovano a dover pagare affitti che si aggirano attorno ai 400 euro. Sono state rese note storie di insegnanti che si limitavano a mangiare riso e pasta in bianco dato che gran parte del loro stipendio veniva speso in affitto e tasse. Le proteste erano iniziate già nel gennaio 2022, ma si sono inasprite a causa della crescita dell’inflazione, che ora segna il 22% e ha reso la loro condizione economica insostenibile.

Un elemento che ha aggravato la situazione degli insegnanti è un decreto introdotto dal governo Orban che impone un numero minimo di ore di servizio per coloro che partecipano agli scioperi. In altri casi, però, alcuni professori sono stati sospesi o licenziati per “disobbedienza civile”, dato che le cause del loro sciopero non sono state reputate valide.

Un ulteriore problema del sistema scolastico ungherese è la carenza di personale, che porta singoli insegnanti a lavorare in diverse scuole e superando spesso il loro orario lavorativo. Questo ha portato molti professori a lamentarsi dell’impossibilità di conciliare il lavoro con la vita privata e la cura della famiglia. I licenziamenti e le assenze dei professori a causa degli scioperi hanno aggravato la situazione. Un elemento che però il governo non aveva previsto è la grande partecipazione degli studenti ungheresi, che hanno compreso le difficoltà affrontate dai docenti e le ripercussioni che possono avere sulla qualità dell’insegnamento. Il 23 ottobre, anniversario della rivoluzione mancata del 1956, sono stati in 50mila a sfilare per le strade di Budapest per chiedere un cambio di passo da parte di Orban.

Il governo intanto ha cercato di giustificarsi attribuendo la mancanza di fondi per la scuola al blocco dei finanziamenti destinati all’Ungheria da parte dell’Ue. Gli insegnanti non ci stanno e chiedono un incremento dei finanziamenti al sistema scolastico. Libri di testo scelti dal ministero che contengono importanti discorsi di Orban, stipendi bassissimi che allontanano i giovani dal settore dell’istruzione e orari di lavoro di lavoro insostenibili sono alcune della cause che hanno portato gli insegnanti ungheresi a scioperare in massa negli scorsi mesi.

Qual è la situazione italiana?

L’Ungheria non è l’unica nazione europea con un sistema scolastico al collasso, perché in tutta l’Ue sono stati registrati tagli all’istruzione e l’Italia sembra essere tra quelle che hanno investito meno nella scuola. Mentre nel 2009 investiva il 4,5% del PIL nell’istruzione, la cifra si è ridotta al 4,0% nel 2018 . Più in basso del nostro paese c’erano solo Romania (3,5%), Bulgaria (3,2%), Grecia (3,9%) e Irlanda (3,2%). Un notevole calo delle risorse economiche destinate che già erano carenti.

Grazie al PNRR, tuttavia, 2,1 miliardi di euro verranno investiti per “trasformare 100.000 classi tradizionali in ambienti innovativi di apprendimento e creare laboratori per le professioni digitali del futuro negli istituti scolastici del secondo ciclo. Spazi di apprendimento flessibili e tecnologici per favorire la collaborazione e l’inclusione”. Inoltre, 2 miliardi e 443 milioni di euro verranno predisposti per favorire l’innovazione del sistema di istruzione: come la didattica digitale integrata,  il potenziamento delle reti locali, cablate e wireless delle scuole, l’installazione di schermi interattivi nelle aule e la creazione di ambienti STEM. Saranno invece 800 milioni gli euro destinati alla formazione digitale del personale. Ma questo basterà?

Roberta Roberti, insegnante di italiano e storia nelle scuole superiori di Parma, scrittrice e attivista con FCL CGIL e nei movimenti in difesa della scuola della Costituzione, approfondisce il tema: “Il primo problema della scuola italiana è quello dei finanziamenti. – spiega – I tagli e gli investimenti insufficienti hanno provocato tre ordini di problemi strutturali assai gravi: le classi pollaio, la carenza di personale stabile e numericamente adeguato, gli edifici scolastici fatiscenti e inadeguati”.

Ci sono inoltre questioni altrettanto importanti e sostanziali che riguardano innanzitutto le finalità della scuola, “sempre meno in linea con quello che sarebbe il compito assegnato all’istruzione dalla nostra Costituzione, – commenta la professoressa – cioè la garanzia delle pari opportunità e lo sviluppo armonico della persona umana“. I problemi che sottolinea la professoressa riguardano l’organizzazione dei percorsi, sia dal punto di vista didattico che da quello dei programmi e dei contenuti.

“Molto sinteticamente, – continua Roberti – la scuola ha subito negli ultimi 25 anni una serie di riforme che l’hanno condizionata fortemente assegnandole il compito di assecondare le richieste del mondo del lavoro e divenire supporto del modello socioeconomico liberista, promuovendo contestualmente metodologie didattiche rigide e finalizzate essenzialmente ad un sapere nozionistico valutato con i quiz, senza ragionare in maniera competente e complessiva sui programmi disciplinari”.

La conseguenza è che gli studenti non sentono la scuola “come un’opportunità e la percepiscono invece come lontana dal loro linguaggio, dalle loro esigenze e dai loro desideri. E gli insegnanti si sentono sempre meno liberi, sempre più sorvegliati e forzati ad adottare metodologie didattiche e strumenti di cui spesso non condividono l’utilità e soprattutto l’efficacia” spiega la docente.

Inoltre, “quando si parla di professionalità docente non riconosciuta – specifica Roberti – si fa riferimento in primo luogo al fatto che in tutti questi tentativi di riforma, per altro mai valutati nella loro ricaduta, il personale docente non è mai stato coinvolto né interpellato“.

La remunerazione degli insegnanti italiani

Lo stipendio medio annuo dei docenti italiani è di 24.500 euro (in Francia è 25.700, in Finlandia 27.000, in Spagna 33.400, in Germania 54.900) – afferma Roberti – A ciò si deve aggiungere un altro fattore molto determinante: gli scatti stipendiali sono estremamente dilatati nel tempo, quindi un docente italiano arriva a percepire la fascia massima salariale (1800/2000 euro al mese) solo negli ultimissimi anni di servizio”. Ci sarebbero varie ragioni che motivano questo trattamento: ad esempio l’orario di servizio ridotto rispetto agli altri paesi, definito dalla professoressa come “una enorme bugia”, dato che i dati a livello europeo dimostrano il contrario.

“In un mondo nel quale il trattamento economico pesa sempre di più nella considerazione sociale, e dove le responsabilità e la difficoltà della professione docente aumentano di continuo, stipendi tanto inadeguati non possono che allontanare tanti giovani dall’intraprendere la carriera dell’insegnamento” conclude Roberti.

Libertà di sciopero

Secondo la professoressa Roberti, in Italia non si è mai arrivati a ciò che si è visto in Ungheria negli ultimi mesi. “I nostri governi si sono sempre serviti di altri strumenti di pressione, quali promesse spesso poi non mantenute e divisione del fronte di protesta per indebolirlo“. Inoltre, fa notare che la classe docente italiana non è affatto reattiva, anche a causa delle responsabilità che avrebbero i docenti nei confronti delle famiglie dovute ai disagi scaturiti dalla partecipazione alle proteste.

L’adesione agli scioperi non è mai stata altissima ed è andata costantemente diminuendo negli ultimi anni. A ciò si deve aggiungere che purtroppo i sindacati si sono trasformati sempre più in uffici per pratiche tecniche e burocratiche, perdendo la loro funzione di stimolo alla riflessione e di consapevole rivendicazione professionale”. La professoressa fa notare inoltre che gli scioperi più partecipati non sono stati quelli riguardanti questioni salariali, ma riguardanti provvedimenti che intaccavano la libertà di insegnamento, gerarchizzavano gli insegnanti o penalizzavano gli studenti più fragili.

Orari insostenibili

In Ungheria molti docenti trovavano difficile bilanciare la propria vita privata con il lavoro, proprio a causa di carenze del personale. Secondo Roberti, in Italia, ci sono regole più rigide a riguardo: “L’orario di ogni docente non può superare una certa soglia, quindi può essere richiesto di fare ore aggiuntive ma sempre entro limiti piuttosto ristretti”.

Ma questo problema si può comunque palesare ad inizio anno scolastico o nel periodo in cui le graduatorie si assestano. “Chi ci rimette – spiega la professoressa – sono gli alunni e le alunne, ai quali dovrebbe essere garantita non solo la presenza dell’insegnante, ma anche la continuità didattica. Soprattutto sono penalizzati gli alunni diversamente abili, ai quali per lunghi periodi mancano i docenti di sostegno, destinati troppo spesso a cambiare più e più volte e con orari sempre insufficienti rispetto alle necessità”.

Tagli all’istruzione

Secondo la professoressa Roberti, non ci sono dati consolanti in merito ai finanziamenti dello stato al sistema scolastico: “Non solo si taglia, ma quando si investe lo si fa male, in modo vincolato e vincolante e senza una visione complessiva”.

Un esempio fornito da Roberti sono i fondi per la digitalizzazione, che non risolvono problemi come la dispersione e altri disagi giovanili. “Arrivano fondi utilizzabili solo per finalità e scopi predefiniti dall’alto che spesso però non corrispondono alle reali esigenze della scuola. Arrivano fondi battezzati per la formazione dei docenti che hanno evidentemente lo scopo di condizionare pesantemente la didattica e i contenuti dei processi educativi in una direzione funzionale al sistema sociale che si vuole consolidare” spiega la docente. L’obiettivo, secondo Roberti, sembra essere la spinta verso la privatizzazione del sistema educativo.

Iniziative di sensibilizzazione condotte contro la dequalificazione della scuola

Roberta Roberti si impegna nei movimenti in difesa della scuola della costituzione da ormai 25 anni. Oltre al coordinamento locale Lascuolasiamonoi, che dal 2000 raccoglie docenti, studenti e genitori delle scuole di Parma e provincia di ogni ordine e grado – impegnati nella difesa e nella realizzazione di una scuola pubblica di qualità, laica, inclusiva, pluralista e gratuita – per la professoressa “il momento più importante” è stata la proposta di legge di iniziativa popolare “Per una buona scuola per la Repubblica”, sulla quale sono state raccolte oltre 80.000 firme nel 2006.

“Faccio riferimento a quell’esperienza perché non solo è stata una straordinaria opportunità di confronto e di proposta collettiva di centinaia di docenti, studenti e genitori in tutta Italia, ma anche perché è stata costruita attraverso il metodo della condivisione, in modo partecipato e costruttivo, tenendo come primo imprescindibile obiettivo il diritto allo studio e come orizzonte la realizzazione dell’articolo 3 della nostra carta costituzionale. In quel testo di legge sta la carta di identità della scuola di qualità che vorremmo realizzare” spiega Roberti.

Un consiglio per i futuri insegnanti

“Insegnare è un mestiere entusiasmante, ma molto difficile. Non è affatto scontato che chi sa le cose le sappia anche efficacemente trasmettere. Va poi tenuto presente che non esiste apprendimento senza relazione. Quindi suggerisco ai giovani aspiranti docenti di riflettere prima di tutto su questo aspetto, quello relativo alla relazione interpersonale, al mettersi in gioco non per riempire dei vasi di nozioni, ma per stimolare la curiosità ed accompagnare ciascuno a trovare il proprio stile di apprendimento e a valorizzare i propri punti di forza, conoscendo e affrontando le proprie debolezze con serenità e consapevolezza”.

É questo quello che Roberta Roberti consiglia ai docenti del futuro, aggiungendo: “Le professioni che prevedono una relazione diretta con le persone, specie se in condizioni di fragilità come accade nella crescita e nella malattia, non richiedono solo competenze di carattere contenutistico, ma relazionali e umane, e purtroppo queste sono invece totalmente ignorate dai percorsi formativi“. Proprio a causa della continua trasformazione di questi ultimi però, Roberti trova difficile dare consigli pratici a chi volesse intraprende questa carriera, ma sottolinea l’importanza dei vecchi percorsi di tirocinio che prevedevano l’affiancamento in aula del tirocinante ad un docente di ruolo.

Un sistema da ripensare

Programmi di studio troppo teorici, scarsa motivazione dei docenti, edilizia scolastica in condizioni fatiscenti e classi sovraffollate, sono i principali problemi che rendono il nostro sistema scolastico inadeguato. Ma si potrebbe anche menzionare il divario che c’è tra l’istruzione fornita dalle scuola del Nord e quelle del Sud. Secondo un sondaggio, il 59% degli intervistati pensa che le scuole settentrionali siano le migliori, mentre solo il 5% pensa lo stesso di quelle del Sud.

Lo stesso divario esiste tra scuole presenti nei maggiori centri urbani e scuole situate in periferia o in piccoli centri abitati, dove il degrado e la criminalità si ripercuotono fortemente sull’istruzione di bambini e ragazzi. Per non parlare poi dell’incapacità del nostro sistema di fornire delle competenze adeguate al mondo del lavoro, perché come dice anche Roberti, la scuola si concentra in molti casi su un sapere nozionistico, senza effettivamente valutare se gli studenti abbiano appreso o meno ciò che è stato studiato e senza dare competenze pratiche ed essenziali per il mondo del lavoro.

Molto spesso gli studenti non puntano a scoprire ciò che una materia nasconde, ma vogliono sono raggiungere una buona media, per poter soddisfare i propri genitori o il proprio ego. L’istruzione dovrebbe invece spingerci a voler conoscere di più riguardo al mondo che ci circonda e apprendere nozioni in modo tale da ricordarle e poterle applicare in futuro, attivando un ragionamento critico.

Non è un mistero quindi se la famiglia finlandese arrivata a Siracusa e subito scappata via dalla Sicilia a causa del bassissimo livello del sistema scolastico italiano. Elin Mattson, pittrice finlandese, aveva infatti deciso di trasferirsi con suo marito e i suoi figli in Sicilia, iscrivendo questi ultimi a scuola e pensando che il sistema educativo fosse simile in tutta Europa. Sfortunatamente, però, ha riscontrato ben altra realtà: nessuna pausa ricreativa all’aperto, scarsa educazione fisica, rimproveri e incompetenza da parte dei professori di lingue straniere. La situazione ha spinto Mattson ha deciso di trasferirsi in Spagna dopo appena due mesi trascorsi a Siracusa.

Sicuramente è impossibile pretendere che tutti i paesi europei diano un’offerta formativa come quella finlandese, ma questa polemica è servita per riaccendere il dibattito sul nostro sistema e, chissà, potrebbe portare a qualche cambiamento.

di Gabriele Scarcia

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