L’Università di Parma è di serie A o di serie B?

TRA CLASSIFICHE DISCORDANTI E RIDUZIONE DEI FONDI DAL MIUR

Università, sede borgo Carissimi“Ci sono Università di serie A e di serie B in Italia e rifiutare la logica del merito dentro le Università e pensare che tutte siano brave è quanto di più antidemocratico vi possa essere”. Il 18 febbraio 2015 il presidente del Consiglio Matteo Renzi, al discorso di inaugurazione dell’anno accademico al Politecnico di Torino, portava all’attenzione di tutti una questione emersa lo scorso anno con la pubblicazione della classifica degli atenei italiani stilata dall’Anvur, l’agenzia nazionale di valutazione della qualità delle università italiane, istituita nel 2006 e vigilata dal Miur.

LE CLASSIFICHE DI VALUTAZIONE IN ITALIA E ALL’ESTERO – Nella sua valutazione ‘Vqr 2004-2010′, l’agenzia mette a confronto le università di tutto il Paese sulla base di diversi parametri, utili a disegnare una geografia degli oltre 90 istituti universitari nostrani. A spiccare nella top 20 sono state Padova (1° delle grandi università), Trento (1° delle medie dimensioni) e Pisa S. Anna (capofila delle piccole). Parma si trova invece all’ottavo posto, un’ottima posizione grazie soprattutto alla ricerca relativa all’ingegneria civile. Le assenze di vere e proprie istituzioni nazionali come la Sapienza di Roma, Firenze, Napoli e lo stesso Politecnico di Torino sono segnali allarmanti di come una lunga tradizione accademica non sopperisca alla crisi dell’istruzione terziaria italiana. Senza contare una linea sempre più marcata che divide il Nord e alcune eccellenze toscane e romane del Sud.
E nel panorama delle altre classifiche universitarie disponibili, come si colloca Parma? Tra quelle nazionali, il Sole 24 Ore, nella graduatoria pubblicata a giugno 2014 in cui valuta la didattica e la ricerca, assegna all’Ateneo di Parma il 31° posto, mentre nella classifica del Censis dello stesso anno, suddivisa per gruppo scientifico e per grandezza delle varie realtà universitarie, l’Ateneo cittadino risulta in quinta posizione. Spostandoci invece su criteri di capacità d’inserimento nel mondo del lavoro, la classifica di Almalaurea del marzo 2014, infine, colloca la città ducale al 13° posto, con un 49,8% degli studenti che ha iniziato a lavorare dopo la laurea e un tasso di occupazione del 57,2%. Per i corsi di laurea magistrali e magistrali a ciclo unico, secondo i dati Almalaurea del 2013,  il tasso di occupazione ad 1 anno dei laureati di Parma è in media pari al 74,11% contro una media degli atenei dell’Emilia Romagna del 74,9% e della media nazionale del 64,1%.

Ben altro discorso è la valutazione se raffrontata a livello internazionale. Nelle prime 150 istituzioni universitarie mondiali, infatti, non si riesce a trovarne una italiana: tutte battute dalle blasonate Oxford e Harvard, ma anche dalle meno note Copenaghen e Melbourne, come riportato dall’Academic Ranking of World Universities dell’anno 2014.

CI VUOLE COMPETIZIONE, MA MANCANO I FONDI – “Bisogna saper riconoscere il merito – dice Renzi – non possiamo pensare di portare tutte le 90 università nella competizione globale, allora ci spazzeranno via tutti quanti”. Ma come si può competere a livello internazionale se manca un appoggio economico deciso da parte dello Stato? Merito e qualità sono da anni gli obiettivi dei rettori italiani, impegnati a barcamenarsi tra fondi statali sempre più esigui e controlli ministeriali sempre più serrati.
Parma non fa eccezione. L’Ateneo cittadino, secondo il decreto ministeriale n.1051 del 20 dicembre 2013, registra rispetto all’anno precedente una differenza del 5% della somma totale dei finanziamenti erogati dal Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) delle Università statali. Nel dettaglio, come indicato dalla relazione tecnica al conto consuntivo esercizio finanziario 2013 dell’Università di Parma, si segnala una diminuzione della quota premiale destinata alla didattica e alla ricerca del 36,60% rispetto al 2012.
La situazione non cambia se si sale al livello nazionale: l’ultimo rapporto dell’Anvur, infatti, sostiene che dal 2009 il finanziamento complessivo del Miur al sistema universitario si è ridotto di circa 1 miliardo di euro, ovvero una diminuzione del 13% in termini nominali e del 20% in termini reali. A confermare questa tendenza sono i dati Ocse pubblicati annualmente nel rapporto ‘Education at a glance’, in cui risulta evidente che la spesa in istruzione terziaria in rapporto al numero degli studenti è di gran lunga inferiore rispetto a quella media dei Paesi Ocse (-30%). Anche la spesa della ricerca e dello sviluppo italiana è tra le più basse tra le grandi economie industriali: le risorse pubbliche investite sono circa lo 0,52% del prodotto interno lordo, -0,18 punti rispetto alla media dei Paesi Ocse, che rappresentano 3 miliardi di euro, ovvero un terzo delle risorse pubbliche investite oggi. Va da sé che con minori risorse si ha inevitabilmente un minor numero di ricercatori e un minor potenziale di innovazione.

ANVUR, IL MERITO PRIMA DI TUTTO –  “In ogni Università ci sono settori eccellenti. Ad esempio, Parma eccelle nella Chimica e anche nel settore dell’Ingegneria dell’informazione ci sono dei gruppi eccellenti. Non ha quindi alcun senso penalizzare le Università considerate di serie B perché si rischierebbe di annientare dei settori di ricerca di assoluta eccellenza internazionale”. Così sostiene Giulio Colavolpe, docente del Dipartimento di Ingegneria dell’informazione all’Università di Parma che è stato membro del GEV (gruppo degli esperti della valutazione) dell’area di settore di Ingegneria industriale e dell’informazione. Per redarre il rapporto Vqr 2004-2010, l’Anvur infatti, “ha reclutato circa 450 docenti italiani e stranieri col compito di valutare i prodotti della ricerca presentati dai docenti e dai ricercatori italiani”. Un lavoro durato un anno e mezzo che ha contato “quasi 185000 prodotti di ricerca (quasi 17000 nel mio GEV)” passati a setaccio, spiega Colavolpe, che poi si sofferma sui criteri utilizzati per l’analisi: “L’Anvur ha anche valutato altri indicatori sia legati alla ricerca sia alla cosiddetta ‘terza missione’ e cioè brevetti depositati, spin-off costituiti, attività di ricerca per conto di aziende ecc. I vari indicatori calcolati sono stati utilizzati dal Miur per distribuire la quota premiale del Fondo di Finanziamento Ordinario delle università in base a un criterio di merito”. Come si valutano invece i prodotti di ricerca? “Per quanto riguarda le aree scientifiche, i prodotti di ricerca come articoli, monografie, atti di convegni, ecc., sono stati valutati dai GEV in base a criteri di rilevanza, originalità e grado d’internazionalizzazione, attraverso due diverse metodologie: la valutazione bibliometrica, che tiene conto della collocazione editoriale delle pubblicazioni e il loro impatto sulle comunità scientifiche attraverso le citazioni, e la peer review, in genere effettuata da scienziati esteri di chiara fama per evitare conflitti di interesse”.

A spiegare pro e contro delle metodologie è la professoressa Cristina Mora, docente di Economia ed estimo rurale nel Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agrarie, Agroalimentari e Forestali all’Università di Parma. Come membro del GEV per l’area di Scienze agrarie e veterinarie, (composto da 24 docenti di cui 7 stranieri che hanno lavorato su circa 10000 lavori) sostiene che “la valutazione bibliometrica è sicuramente molto più rapida, economica e meno potenzialmente distorta rispetto alla valutazione peer, che prevede una lettura del lavoro e una sua rivalutazione”. Ciò in seguito all’analisi svolta da altri lettori anonimi, per la pubblicazione dei documenti in una rivista. “In un anno e mezzo, insieme alla collega spagnola, abbiamo scelto i 70 revisori esterni, controllato, mandato alla valutazione e ricevuto le valutazioni dei lavori, risposto ai revisori, italiani e non, mandato in terza lettura i lavori con valutazioni molto discordanti, risposto ai dubbi dei revisori. Il tutto per gli 800 prodotti della ricerca a noi assegnati, per un totale di più di 1800 valutazioni”. Un lavoro poderoso e regolato eticamente in tutte le sue fasi, stando attenti, come aggiunge la prof.ssa Mora, ad evitare conflitti di interesse nella scelta dei revisori secondo sede d’affiliazione, collaborazione scientifica e nazionalità.
Ma come spiega la discordanza fra la classifica dell’Anvur e la distribuzione dei fondi da parte del Ministero? “Diversi sono gli obiettivi (valutare la sola ricerca oppure valutare e poi stimolare, sostenere, indirizzare le performance di un sistema complesso, l’Università) e quindi i criteri utilizzati”, sostiene la docente, e poi conclude: “La valutazione della ricerca è solo uno degli aspetti considerati nella distribuzione dei fondi pubblici”. L’importanza di questo processo di valutazione non riguarda solo studenti e docenti, ma imprese, cittadini e l’intera società. “Ne ha bisogno il nostro Paese, e ogni bambino che diventa uomo”.

TROPPE CLASSIFICHE FUORVIANTI, MA “PARMA È USCITA BENISSIMO”- Se da una parte tante classifiche con sistemi di valutazione articolati aiutano ad avere un quadro più ampio della situazione del sistema universitario italiano, dall’altra possono generare confusione nell’individuazione delle ‘Università di serie A’, interferendo col lavoro di valutazione già svolto dall’Anvur. “I metodi e i criteri possono essere condivisi o meno, ma in ogni caso chi legge la classifica sa che è stata approntata usando quel determinato criterio, che in ricerca chiamiamo operazionalizzazione del costrutto“, spiega Beatrice Luceri, professore associato al Dipartimento di Economia dell’Università di Parma e delegata del rettore a Comunicazione Interna, Marketing e Ranking, che aggiunge: “È chiaro che le famiglie non conoscono come è stata operazionalizzata la didattica o la ricerca, quando devono iscrivere un figlio all’università”. Per far chiarezza, di recente la docente, nell’ambito della delega ricevuta dal rettore, ha redatto una relazione, in cui analizza alcune delle più famose classifiche nazionali, mettendo in luce i metodi che possono generare asimmetrie di merito.

La classifica del Censis, ad esempio, nel valutare l’Ateneo di Parma prende in considerazione le aree scientifiche ma esclude il corso di Economia perché, secondo il suo metodo di operazionalizzazione, non sono da considerarsi valutabili gli atenei che hanno meno di due classi di laurea, “nonostante abbiamo un numero di studenti iscritti molto elevato”, fa notare Luceri. Altra incongruenza è l’esclusione del punto forte dell’offerta formativa degli Atenei: le lauree magistrali capaci, per il loro elevato grado di formazione specializzata, di attirare numerosi triennalisti provenienti da altre province nell’Università di Parma. Questo criterio di classificazione è “assolutamente arbitrario”, sostiene la docente che aggiunge che nella valutazione della qualità scientifica della ricerca, il Censis usa dati “non sufficientemente rappresentativi come i finanziamenti PRIN – oggetto di finanziamenti in diminuzione e discontinui negli ultimi anni – e Google Scholar che restituisce una fotografia parziale del livello di diffusione dei risultati ottenuti dai ricercatori”. Per non parlare della trasparenza. Con questo metodo sembra praticamente impossibile verificare i valori utilizzati ai fini di calcolo, a differenza, invece, della classifica del Sole 24 Ore. Anche in questa classifica, però, potrebbero esserci delle riserve di metodo sui valori calcolati e sull’esclusione di un dato importante come il grado di soddisfazione degli studenti. Il Sole 24 Ore elabora una valutazione generale dell’ateneo nel suo insieme, contemplando diversi indicatori per alcuni dei quali è facile intuire la loro parzialità, come ad esempio l’indicatore dell’attrattività che prende in considerazione la percentuale di immatricolati fuori regione sul loro totale, ma dimentica che “gli atenei non hanno solo gli immatricolati ma hanno anche gli iscritti, cioè quelli che si trasferiscono da un ateneo all’altro anche durante il primo anno”.
Nella relazione la docente non risparmia neppure la classifica dell’Anvur sulla valutazione della qualità della ricerca e spiega: “In Italia i problemi sono da ricondurre alla storica separazione tra le materie bibliometriche e tutte le altre, che ha portato all’altro grande problema dell’internazionalizzazione rispetto al rapporto con il territorio”. In altre parole una ricerca di qualità ma poco internazionalizzabile, come quella che rafforza il rapporto dell’università con il territorio, pesa poco ai fini della valutazione pur essendo essenziale.

Allora come valutare un ateneo sulla didattica, sulla ricerca, sui servizi e altro ancora? E soprattutto, al netto delle polemiche, come ne esce il nostro Ateneo? “Parma è uscita benissimo, nonostante tutto, nonostante le polemiche sulle politiche di operazionalizzazione, nonostante i pochi fondi ricevuti. E non dimentichiamoci che siamo un paese piccolo e fortemente connotato da un punto di vista linguistico“, afferma la Luceri.
L’Università di Parma, da ciò che emerge, continua a essere un’opportunità per migliaia di giovani studenti che vogliono specializzarsi e introdursi velocemente nel mondo del lavoro. È importante soprattutto la fidelizzazione con le imprese e gli stakeholder che un’università deve approntare per creare opportunità di occupazione. Al di là delle università di serie A o di serie B sono le relazioni che crea l’università che generano inserimento e opportunità, come spiega infine la docente: “Noi abbiamo un rapporto con le imprese, non solo a Parma, e queste apprezzano i nostri prodotti prendono i nostri studenti in stage e molto spesso succede che li assumono anche”.

 

 di Andrea Cammarata, Andrea Francesca Franzini, Francesca Matta, Michele Panariello

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