Piangere per la telecamera: il piacere di vedere il dolore altrui

Fino dove siamo disposti a spingere la nostra curiosità a discapito del dolore altrui?

Fino a dove siamo in grado di spingerci per un po’ di notorietà? Quanto valore siamo in grado di dare al dolore altrui?

Il 24 febbraio è venuto a mancare Maurizio Costanzo, importante giornalista e conduttore che, nel corso della sua carriera, è stato in grado di rivoluzionare il giornalismo televisivo creando programmi di successo – uno tra tutti il Maurizio Costanzo Show – e seguendo inchieste storiche contro la mafia. Maria de Filippi, anche lei grande professionista della televisione e moglie di Costanzo dal 1995, ne ha pianto la morte assieme al figlio Gabriele circondata da moltissimi volti della TV e dello spettacolo italiano.

La professionalità di Costanzo e il suo carattere autoironico lo hanno reso da sempre un punto di riferimento per molti di quelli che oggi sono volti noti dello spettacolo, in passato guidati dai suoi consigli o addirittura lanciati dai suoi programmi.

La sua scomparsa ha toccato, però, anche le persone comuni che avevano conosciuto e apprezzato il giornalista grazie al suo lavoro. Proprio per questo motivo, il 25 e il 26 febbraio, la camera ardente allestita in Campidoglio è rimasta aperta a chiunque volesse salutare il grande giornalista per l’ultima volta e per chi volesse porgere la propria vicinanza ai familiari.

L’evento ha ricevuto un forte interesse mediatico e, proprio grazie alla presenza di molte telecamere, non è potuto sfuggire a nessuno un fatto in particolare. La notorietà del giornalista e dei suoi cari, ha attirato alcune persone più interessate a conquistarsi un selfie con i loro ‘vip preferiti‘ invece che a rendere omaggio alla vita di un uomo.

Maria de Filippi, nonostante la dolorosa occasione, si è mostrata molto composta anche se nel suo viso si poteva vedere chiaramente il dolore che questa perdita le stava causando. Sfortunatamente, anche in questo momento non tutti sono stati in grado di provare empatia nei confronti di Maria De Filippi e due persone si sono presentate alla camera ardente con l’intento di chiedere un selfie, che hanno, tristemente, ottenuto.

Le immagini ci hanno messo ben poco a circolare online, provocando molta indignazione per la mancanza di tatto avuta all’interno di un contesto colmo di dolore e lutto. La rabbia davanti a questo fatto è solo aumentata quando, il giorno dopo, l’uomo protagonista della vicenda ha pubblicato sui social lo scatto con la conduttrice. Questa azione ha scatenato una valanga di insulti nei confronti dell’uomo, costringendolo a eliminare i suoi profili social.

La vicenda ha aperto un dibattito piuttosto acceso, ma perché ne siamo sorpresi? Dopo tutto non è la prima volta che ci capita di vedere il dolore delle celebrità sfruttato dai media e da coloro che, tecnicamente, ne sono fan. Anche al di fuori dell’Italia ci sono molti esempi di strumentalizzazione del dolore delle star: basti pensare a Britney Spears nel 2007 che, durante un crollo psicologico, è stata fotografata da diversi paparazzi aggravando ulteriormente la situazione mentale della cantante. Le fotografie continuano a girare sul web, usate come meme o come promemoria che forse tu non stai mentalmente così male e che c’è sempre chi sta peggio.

Il fatto che questa strumentalizzazione del dolore accada molto più spesso ai danni delle celebrità di tutto il mondo non deve indurci a pensare che le persone comuni non rischino di diventarne vittime a loro volta. Negli ultimi anni si è visto sempre di più un aumento di quella che può essere definita pornografia del dolore, ovvero quella dinamica per cui vedendo le tragedie e il dolore altrui si prova interesse se non addirittura piacere.

Anche a livello televisivo e giornalistico possiamo trovare tantissimi esempi di pornografia del dolore e strumentalizzazione di tragedie con il chiaro scopo di attirare spettatori. Tutti ricordiamo l’incidente avvenuto sulla funivia Stresa-Alpino-Mottarone del 23 maggio 2021 e tutti ricordiamo come le immagini dell’incidente siano state diffuse proprio dal telegiornale.

Tantissimi di noi, volenti o nolenti, hanno visto quelle immagini, vissuto gli ultimi momenti e la paura di quattordici persone. Bisogna considerare che quelle immagini, trasmesse in televisione anche oltre il necessario e andando ben oltre quindi il diritto di cronaca, saranno sicuramente giunte ai familiari delle vittime, che si sono ritrovati costretti per settimane a vedere la loro tragedia personale diventare pubblica, appesantendo ulteriormente quel macigno che è la perdita di una persona amata.

Il loro dolore è diventato motivo di discussione, un’occasione per incolpare qualcuno, argomento su cui chiunque poteva esprimersi. Un video, che sarebbe dovuto restare privato e servire come chiarimento agli inquirenti per comprendere l’accaduto, è diventato un’arma per tutti coloro che le vittime si sono lasciati alle spalle solo per poter soddisfare quella curiosità e volontà (del tutto umana) di vedere.

Sfortunatamente non è l’unico caso in cui un video, la cui diffusione è a scopo probatorio per portare la giustizia alla vittima, diventa di dominio pubblico e ulteriore motivo di dolore. L’agosto scorso abbiamo tutti assistito all’orrore dello stupro. Come? Con un video girato a Piacenza, piccola città dell’Emilia Romagna, nato come prova poi diventato virale, riproposto da diverse testate giornalistiche e addirittura da cariche importanti dello Stato.

La donna, già violata, si è ritrovata costretta ad affrontare una nuova notorietà datale proprio dalla condivisione della violenza subita nel centro della propria città. Il video è stato utilizzato anche con scopi politici, presentando la nazionalità dell’aggressore come una causa diretta dell’atto compiuto. Ma come è stato possibile il riconoscimento? La vicenda ha preso luogo a Piacenza – città dalle piccole dimensioni – e la diffusione mediatica del video ha sicuramente fatto sì che raggiungesse anche dei conoscenti della vittima; o semplicemente, mossi dalla curiosità, in molti hanno guardato e riguardato il video, nella speranza di cogliere qualcosa di più, di vedere oltre e finalmente percepire quel dolore.

La volontà di sapere di più, di scavare più a fondo nel dolore degli altri ci ha resi sempre meno empatici. Voler sapere qualcosa di più, essere chi nota quel qualcosa in più fra i resti delle vite altrui con la speranza di essere notati a nostra volta, ci ha portati a non rispettare più quel dolore inimmaginabile che solo chi si trova davanti a certe tragedie può provare. Il nostro volere supera il dolore altrui, la cosa importante è avere qualcosa da postare sui social.
Dopotutto si sa, dopo la tragedia restano solo i like.

di Annachiara Barotti

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