Maledetti pacifisti: la narrazione italiana della guerra spiegata dal giornalista Nico Piro
L’inviato e giornalista di RAI3 presenta il suo ultimo libro a Parma e riflette: "Al fiume di armi che stiamo mandando in Ucraina non sappiamo cosa realmente accadrà”. Ospite all'incontro organizzato da Emergency Parma anche Umberto Marzi, medico inviato in missione in Afghanistan
“Comunque la si pensi, credo che ci dovrebbe preoccupare una cosa sola: se oggi non possiamo parlare di pace senza sentirci dire che siamo dei traditori della patria, domani di che cosa non potremmo parlare in questo paese?”.
Questa una delle tante domande che Nico Piro, scrittore e giornalista italiano, attualmente inviato speciale del TG3, pone ai suoi ascoltatori, alla presentazione del suo ultimo libro “Maledetti pacifisti. Come difendersi dal marketing della guerra”, tenutasi il 15 aprile alla Libreria Mondadori Euro Torri.
Inoltre, sono intervenuti il medico rianimatore e anestesista Umberto Marzi, il quale ha svolto quattro missioni umanitarie in Africa e in Afghanistan, la scrittrice Sarah Savioli e rappresentanti del gruppo di Emergency di Parma e ANPI Parma, enti che hanno anche organizzato l’evento.
Emergency Parma ricorda che il 15 maggio 2024 Emergency compirà 30 anni, quando all’epoca, nel 1994, era nata come un’esperienza a scadenza. “Purtroppo – spiega una delle volontarie – Emergency ha iniziato a lavorare anche un Italia, molto prima del 2020, e questo la dice lunga sulla situazione del nostro paese”.
Ci tiene inoltre a ricordare uno dei tanti messaggi che Emergency continua a portare avanti, ovvero l’importanza della sanità gratuita per qualsiasi individuo: “In questo momento, in Italia stiamo assistendo ad una brutta deriva rispetto a questo, sta dilagando sempre di più la sanità privata, con tutto quello che comporterà”.
La portavoce conclude facendo un appello al pubblico riguardo ad Emergency e dell’aiuto che tutti noi possiamo dare all’associazione, poiché “c’è tanto da fare, ora più che mai”, e lasciando la parola al medico Umberto Merzi, il quale introduce l’autore con un estratto del suo libro: “A chi lascio a casa quando sono lontano. Alle persone che incontro lungo la strada”, specificando che pensare alla propria casa quando si è in missione sia una cosa tanto dolorosa quanto fondamentale.
“Non sono un pacifista, semplicemente sono contro la guerra”
Piro interviene puntualizzando il fatto di non sentirsi pacifista (riprendendo il titolo del libro) o, perlomeno, di non rispondere al classico profilo di questo: “Non sono un obbiettore di coscienza, ho un porto d’armi e non ho problemi ad usarle, non sono antimilitarista. Sono semplicemente contro la guerra”, spiegando di come, avendola frequentata, abbia imparato con gli anni, che “la guerra non risolve i problemi, ma li complica“.
“E purtroppo – continua l’autore – a parlare di questa guerra, sono persone che rispecchiano perfettamente la frase di Orwell: ‘Le voci che più alte si elevano a favore della guerra son quelle di coloro i quali non la combatteranno mai’; credo che ci siano elementi sufficienti per sollevare qualche dubbio, e per trovare una soluzione che non sia solo quella della guerra”. Piro, così dicendo, rivolge una critica verso la narrazione italiana nel parlare della guerra, la quale utilizza una “logica da talk show fastidiosa, per cui devi mettere per forza una persona a favore della Russia e tutti gli altri che gli danno addosso”.
“Il 15 febbraio dell’anno scorso avevo capito che la situazione stava precipitando in Russia – prosegue l’autore, collegandosi all’inizio del conflitto fra Russia e Ucraina e alla deriva giornalistica di questo evento – e così sono andato a Rostov sul Don, regione che confina con il Dumbass secessionista. È stata un’esperienza diversa rispetto a quelle precedenti afghane, perché non ero a vedere quel ‘pezzettino’ di guerra (che poi è quello che un inviato vede), ma ho potuto avere una visione più globale di come questa guerra la stavamo raccontando, e ho capito che, per la prima volta dalla guerra del Vietnam, in Italia, ma in tutto il mondo occidentale, non c’era un senso critico su questa guerra”.
Riprendendo la domanda posta da Savioli all’inizio dell’incontro, la quale ha chiesto a Piro di come fosse nato il libro Maledetti pacifisti, l’autore risponde che è stato proprio il vedere come stesse dilagando il marketing della guerra (termine che diventerà in seguito sottotitolo del libro) in Italia, ovvero “una narrazione con l’obbiettivo di vendercela a tutti i costi”.
“La soluzione del conflitto è la diplomazia”
Il giornalista continua la sua riflessione ponendo un’altra domanda: “Un anno dopo dall’inizio del conflitto siamo veramente ancora qui a chiederci se la guerra sia una soluzione, al posto di investire sulla diplomazia? Il capo di stato maggiore dell’Esercito ci dice – aggiunge Piro – che non c’è possibilità di vittoria militare, e anche in caso di vittoria, l’Ucraina non si riprenderà nei prossimi mesi: allora qual è il perché di questa guerra? Mi fa paura che nessuno si ponga questa domanda”.
Senza mezzi termini Piro condanna il fatto che “in questo paese il danno più grosso è che esiste un unico pensiero bellicista, e chiunque provi a battersi per la pace viene additato come ‘traditore della patria’ e ‘amico del nemico’, mettendo a tacere chiunque la pensi diversamente. La cosa che mi colpisce di questi incontri – spiega l’autore – è che mi sento dire ‘Grazie, mi sento meno solo’, e questo perché siamo arrivati al punto in cui le persone hanno paura di dire che ci vorrebbe un po’ più di pace e di democrazia, al posto del clima di odio che si sta via via sempre più intensificando”.
Difatti, Piro subito dopo conferma questa affermazione: “Si mette tutto nel congelatore, la gente smette di morire e si comincia a parlare; anche perché le guerre sono spirali, si crea un tale clima di rancore e di odio che i danni vanno avanti per generazioni. Ed è abbastanza chiaro che i conflitti che si chiudono con una vittoria militare di una delle due parti (che in questo momento non è possibile) non necessariamente porta ad una pace vera: portano ad un armistizio, che è una cosa diversa dalla pace”.
Le armi: un veleno pericoloso
L’autore prosegue l’intervento spostando la riflessione sulle armi: “Noi stiamo mandando armi in Ucraina senza alcun senso critico, ma vorrei far notare che anche in Vietnam è iniziata in questo modo: assistenza militare alle truppe sub vietnamite, e si diceva che i nostri ragazzi non sarebbero mai andati a morire a migliaia di chilometri di distanza da casa, poi così non è andata”; sostenendo inoltre che “ci sia un fattore che nessuno mette in evidenza, ma che è un dato fondamentale per capire chi stia realmente vincendo, ovvero i caduti e i feriti che non possono tornare al fronte”.
“Di questo conflitto quindi non sappiamo niente, ma è evidente, lo dicono anche le statistiche, che il rapporto della popolazione ucraina rispetto a quella russa è 1:3, ovvero 40milioni contro 124milioni, dei quali probabilmente solo 10milioni di loro sono mobilizzabili per il fronte. Io ho paura – confessa Piro – che se questo conflitto andrà avanti, si arriverà ad un punto che non basterà più mandare solo armi, e mi sembra che questo tema non venga sollevato da nessuno”.
Piro, per spiegare meglio il problema, pone attenzione anche sulla guerra in Afghanistan, a Kabul (da lui seguita in maniera approfondita dal 2006 come inviato sul luogo da RAI3) e sulla traiettoria circolare che questa ha avuto nel corso degli ultimi vent’anni: “È partita dal 12 novembre del 2001, quando sotto le bombe americane i talebani lasciavano Kabul; vent’anni e 250mila morti dopo, il 15 agosto 2021, abbiamo assistito alla manifestazione plastica del fatto che quella guerra sia stata inutile, perché i talebani sono tornati a Kabul, questa volta con armi, equipaggiamento e mezzi americani che avevamo dato all’esercito afghano proprio per combattere i talebani”.
L’autore conclude affermando che “le armi sono un veleno, e che una volta messe in circolo non sappiamo quell’acqua avvelenata da quale rubinetto uscirà: al fiume di armi che stiamo mandando in Ucraina non sappiamo cosa realmente accadrà”, per poi passare la parola al medico Marzi.
I civili: le vere vittime del conflitto
“Il più grande danno che fa la guerra – introduce Piro – è trasformare le persone in numeri, perché i numeri ci mettono a posto con la nostra coscienza. Poi però, ed è un effetto che fa presa anche su di me, quando si sentono le notizie che riferiscono ‘80 morti e 50 feriti’, penso al fatto che almeno i feriti ce l’abbiano fatta, ma in realtà è gente che non è morta, è vero, ma che ha ferite che nessuno potrà mai più guarire. La testimonianza di Umberto è utile anche a farci capire dal punto di vista di un medico che cos’è la guerra”.
Interviene così Umberto Marzi, specificando di quanto, in realtà, sia difficile inquadrare brevemente l’ospedale di Kabul, ma c’è un episodio che tiene a raccontare: “Un giorno è arrivato un ragazzo che non aveva più un braccio e una gamba, è stato un damage control per evitare che morisse di emorragia. Il giorno dopo l’abbiamo lasciato svegliare molto lentamente con tutti gli analgesici del caso e lui, appena cosciente, ha iniziato a piangere, l’abbiamo poi stubato perché la situazione era stabile, e gli abbiamo chiesto del perché piangesse e se avesse molto dolore.
“Il ragazzo ci ha risposto che non aveva dolore, ma che era figlio unico e l’unico della famiglia a lavorare: stava andando con la macchina dal suo gregge fuori dal villaggio, quando è arrivato un missile e l’ha colpito. Ci ha chiesto chiaramente – prosegue Marzi – ‘Io adesso come mi occupo dei miei genitori? Nessuno potrà occuparsi di me, e così io non potrò occuparmi di loro, i miei genitori sono anziani, sicuramente moriranno’”.
In seguito, il medico chiarisce l’affermazione del ragazzo, spiegando che in Afghanistan “i figli sono il welfare di questo paese, perché non c’è l’assistenza sanitaria, e tante volte dobbiamo decidere se curare o no una persona in base anche alla possibilità che, dopo essersi ripreso, possa essere o meno indipendente, perché nessuno si occupa di te se sei disabile”.
Marzi conclude l’intervento spiegando come, in quelle missioni, non abbia quasi mai avuto “l’impressione di curare dei soldati, ma solo dei civili, che con la guerra non c’entravano niente”.
di Beatrice Guaita
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