Dalla strada alla farmacia: storia di molecole (quasi) dimenticate
Dal primo luglio l'Australia autorizzerà la prescrizione di alcune molecole che associamo anzitutto ad abuso e dipendenza. Quanto è lecito essere ottimisti?
Dal primo luglio di quest’anno, l’Australia autorizzerà alcuni psichiatri a prescrivere, come supporto alla psicoterapia, due molecole promettenti: MDMA e psilocibina. La prima per il trattamento dello stress post traumatico, la seconda per la depressione resistente ai trattamenti. Autorizzazioni come queste sono l’ultimo passo della sperimentazione prima dell’uso diffuso e sistematico di un farmaco.
La psilocibina è una sostanza naturale prodotta da alcuni funghi, identificata chimicamente alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso, il cui uso come psichedelico si perde nella notte dei tempi. L’MDMA (Metilen-Diossi-MetaAnfetamina) è invece una molecola di sintesi, inventata quasi per caso cercando di sviluppare dei farmaci emostatici. In entrambi i casi, la loro (ri)scoperta o invenzione è coincisa con un accendersi dell’interesse per la loro applicazione in campo psicoterapeutico.
La ricerca riguardo queste sostanze, assieme ad altre come LSD (sintetizzata nel 1938) e cannabis (nota probabilmente già nel neolitico), è proseguita a fasi alterne per decenni. Tuttavia, la medicina basata sull’evidenza nasce negli anni ottanta in campo oncologico, e si diffonde all’intero settore medico solo alla fine degli anni novanta. La psichiatria stessa si è evoluta moltissimo negli ultimi vent’anni. Ai tempi in cui MDMA e psilocibina cominciarono il loro percorso farmaceutico, assieme ad altre sostanze psichedeliche e non, la sperimentazione in campo psicologico e psichiatrico non era molto più che una raccolta di casi clinici nel contesto di una disciplina giovanissima e in rapida evoluzione. Non deve quindi stupire che ancora nel 1987 una revisione della letteratura riguardante l’uso dell’MDMA concludeva che forse una qualche utilità c’era, ma non era ancora possibile dare indicazioni precise e affidabili sul suo uso in campo psicoterapeutico.
Tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000, proprio l’MDMA divenne estremamente popolare come sostanza ricreativa tra giovani e giovanissimi (e anche come droga dello stupro), nota principalmente con i nomi “commerciali” di Ecstasy e Molly, fu responsabile anche di diversi casi di intossicazione, anche fatale. Inserita tra le sostanze soggette a restrizioni, assieme agli allucinogeni psilocibina e LSD, la sua appetibilità come psicofarmaco scese rapidamente.
Diventare sostanza ricreativa – o droga da strada (street-drug), come la si definisce nel mondo anglosassone – è la cosa peggiore che possa capitare ad una molecola che abbia un potenziale farmacologico meno che consolidato. Le restrizioni legislative comportano come minimo un sensibile aumento delle difficoltà burocratiche (e dei costi!), a cominciare dalla stessa produzione. La diffusione come sostanza d’abuso costituisce poi un rischio diretto per tutto il personale sanitario coinvolto, sia nella sperimentazione che nel successivo eventuale uso terapeutico. La possibilità di essere aggrediti da qualcuno convinto (a torto o a ragione) di potersi procurare in questo modo qualche dose di una sostanza d’abuso, è una reatà con cui il personale sanitario, a cominciare dalla farmacia, deve fare i conti quotidianamente.
L’aumento dei costi, la difficoltà nell’ottenere le autorizzazioni necessarie e nel reclutare il personale per le sperimentazioni cliniche, uniti alla prospettiva di vedere compromesse le vendite a causa della comprensibile resistenza del comparto sanitario a farsi carico dei rischi connessi alla gestione di sostanze socialmente problematiche, in pochissimi anni, scoraggiò qualunque investimento privato. Il settore pubblico, per contro, raramente dispone di finanziamenti sufficienti a portare avanti efficacemente l’intero percorso sperimentale di un farmaco. Sotto l’effetto dirompente delle restrizioni legali e dello stigma sociale, l’interesse per queste molecole sembrò quindi esaurirsi. Tuttavia, la ricerca psico-farmacologica era sopravvissuta.
Per quasi un ventennio le ricerche andarono comunque avanti, arrancando lontane da riflettori e finanziamenti. Negli ultimi anni, con l’accumularsi di risultati ragionevolmente solidi (nel senso moderno del termine), l’interesse per queste molecole “dimenticate” sembra riaccendersi. Mentre scrivo questo articolo, il sito clinicaltrials.gov censisce 138 sperimentazioni cliniche riguardanti la psilocibina, 131 riguardanti l’MDMA, 153 riguardanti l’LSD e 654 riguardanti il THC (uno dei principi attivi identificati nella cannabis).
Le potenziali applicazioni di queste molecole sono molte, e spaziano dalla sindrome da stress post traumatico, alla depressione resistente ai farmaci, alle dipendenze da alcool e da oppioidi (farmaci compresi). A questi si aggiunge, per le sostanze derivate dalla cannabis, il capitolo riguardante la terapia del dolore e il controllo della nausea e dell’anoressia, in particolare nei pazienti oncologici.
Sola dosis facit venenum
Paracelso
(È la dose che fa il veleno)
Può sembrare strano che sostanze che associamo all’abuso e alla dipendenza, e che in alcuni casi sappiamo addirittura favorire l’insorgere di comportamenti psicotici, possano rivelarsi invece utili nel trattamento di condizioni come la sindrome da stess post-traumatico. Già nel XVI secolo Paracelso aveva intuito come fosse la dose a rendere pericolosa o meno una sostanza, non la sostanza in sé. Le molecole psicoattive non fanno eccezione. Parafrasando Paracelso: è il modo a fare l’abuso.
La quantità e la varietà delle sperimentazioni cliniche in corso, unite a certi titoli roboanti, potrebbero far pensare ad una qualche prossima rivoluzione nella cura dei disturbi mentali (e non solo), trainata da farmaci quasi miracolosi, colpevolmente tenuti lontani dagli scaffali delle farmacie dal pregiudizio sociale. I dati però raccontano una storia molto più sfumata e complessa, e soprattutto molto meno straordinaria.
Se si va a vedere in dettaglio, ad esempio, uno dei più recenti studi sull’uso della psilocibina nel trattamento della depressione, si trovano informazioni importanti che troppo spesso si perdono nella catena comunicativa; catena che parte dalla ricerca e arriva ai giornali generalisti spesso attraverso numerosi passaggi non sempre utili. Anzitutto, la somministrazione avviene in ambiente controllato e in presenza di personale medico. Inoltre, gli effetti del farmaco sono utilizzati a supporto del percorso psicoterapeutico, non sono valutati isolati dal resto. Infine, i miglioramenti osservati (rispetto ai pazienti che hanno ricevuto il solo supporto psicologico) riguardano alcuni parametri del disturbo considerato, non la sua totalità.
Nonostante questi limiti, affiancare queste molecole alla psicoterapia sembra portare vantaggi significativi e molto interessanti; siamo comunque molto lontani dall’idea di una “pillola miracolosa”, di una sorta di “fagiolo di Balzar” della psicofarmacologia, che sembra invece trasparire da una copertura mediatica troppo spesso frettolosa e approssimativa.
Un vero e proprio mito, quello della pillola miracolosa, che ci trasciniamo dai tempi del Santo Graal e del Nettare di Ambrosia, e che andrebbe invece lasciato dove sta: nel mito. Troppo spesso sembra invece fare da sfondo alla comunicazione medica, anche quando questa riguarda un tema delicato come la malattia mentale (o l’oncologia). Tema che andrebbe invece affrontato senza rincorrere sensazionalismi, ma usando la massima attenzione e prudenza, anche per il carico sociale che ancora si porta dietro.
di Giovanni Perini
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