Ecofemminismo o barbarie: al festival femminista di Parma la resistenza anticapitalista dei corpi e della Terra
L'incontro ha portato anche l'esempio dell'ecovillaggio reggiano Alvador dove si cerca di scardinare il ruolo della donna nella cura grazie alla collettivizzazione
Sono due i poli attorno a cui si è acceso l’incontro sull’ecofemminismo organizzato dalla Casa delle Donne di Parma nell’ambito del festival femminista ReSister! che si è tenuto nel Parco della Musica il 15, 16 e 17 settembre scorso: la resistenza alla violenza capitalista che depreda e sfrutta allo stesso modo i corpi delle donne, quelli degli animali, la Terra e le risorse naturali, e la ricerca della bellezza.
La prima ad intervenire nel corso del dibattito è Laura Corradi, ex operaia e ricercatrice dell’Università della Calabria, spiegando che l’ecofemminismo “non è solo ecologia femminista”, per quanto denoti l’impegno delle donne nelle lotte a difesa dell’ambiente, ma la riscoperta della radice antica del rapporto tra donne e natura. Partire dal corpo è uno dei principali insegnamenti del femminismo, ed è proprio a partire da questo che le donne di tutto il mondo hanno condotto lotte a salvaguardia del proprio benessere e di quello della Terra, convinte di una profonda identità tra lo sfruttamento che il capitalismo e il patriarcato esercitano, abusando delle donne e sfruttando l’ambiente.
A questa consapevolezza si accompagna il desiderio di cambiare i paradigmi di riferimento delle società capitaliste: Corradi invita a prendere esempio dalla Gineologia, creata dalle donne curde per ripensare l’attuale idea di scienza odierna. “Mentre le pariopportuniste, le quotarosiste, puntano sull’avere più donne nei laboratori, come scienziate o, con qualche donna dirigente, – spiega Corradi – noi ecofemministe crediamo che la scienza oggi sia il prodotto del capitalismo: è una scienza sessista, prodotta dal patriarcato, che ha sempre inferiorizzato le donne, ed è una scienza omofobica, perché eterosessista ed eteronormativa”.
Dello stesso avviso è Silvia Federici, sociologa e filosofa parmigiana naturalizzata statunitense, esperta di marxismo e femminismo, che invita alla lettura dei testi non ancora tradotti in Italia di Maria Mies e Vandana Shiva sul tema degli ecofemminismi, lanciando inoltre l’invito una riflessione sulle nuove tecnologie riproduttive a partire da questi scritti.
Sembra una prospettiva utopistica, a volte, quella ecofemminista, ma non è in fondo poi così remota: a concludere l’incontro sono Silvia Stradi e Sara Bigi, cofondatrici dell’ecovillaggio Alvador, una comune a pochi chilometri da Reggio Emilia, in cui i principi dell’ecofemminismo trovano un’ applicazione pratica.
Stradi spiega che questo cammino comunitario è nato dalla sperimentazione inconsapevole delle pratiche di cura esercitate dalle donne che hanno incontrato nel corso dei viaggi che hanno intrapreso singolarmente dopo avere finito le scuole superiori. L’avere osservato il modo in cui le donne delle comunità del nord dell’Albania e della Repubblica Democratica del Congo reggono le proprie comunità sul lavoro di cura ha mosso qualcosa in loro. Si sono chieste “dove il lavoro di cura è stato uno strumento del patriarcato e del capitalismo per controllare i nostri corpi, per disciplinarci, la domanda è: come scegliere una vita di cura scardinando questo meccanismo? La risposta che ci siamo dati è: con la collettivizzazione di questa cura”.
Nell’ecovillaggio tutte le proprietà sono in comune, si applica un regime di resistenza alimentare, scegliendo di non comprare niente che sia stato prodotto sfruttando la Terra o il lavoro di altre persone, e le decisioni vengono prese in modo non maggioritario, nel corso del Cerchio che si riunisce due volte a settimana per parlare dell’organizzazione pratica e di come ci si sente. E’ così che si scardina l’ego senza perdere la propria individualità, in un sistema interdipendente in cui la propria realizzazione personale dipende da quella delle altre persone.
di Marta Montana
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