Il coraggio di fermarsi: Sangiovanni si prende una pausa
Ad appena 21 anni sente troppa stanchezza mentale e fisica. C'entrano l'industria musicale e la cultura della prestazione
Il cantante Sangiovanni ha dichiarato in un post su Instagram di aver annullato il suo concerto al Forum di Assago del 5 ottobre e di aver rimandato l’uscita del suo album Privacy, inizialmente prevista per il 1° marzo.
Alla base di questa scelta c’è il bisogno di staccare momentaneamente dalla musica e di prendersi cura di sé stesso. “Non riesco più a fingere che vada tutto bene e che sia felice di quello che sto facendo”, si legge nel post con cui l’artista classe 2003 – 39 tra dischi d’oro e di platino grazie a hit come Malibu e due album ai vertici delle classifiche italiane – ha comunicato la volontà di mettere la sua carriera in pausa.
La decisione arriva pochi giorni dopo la fine del 74esimo Festival di Sanremo, dove Sangiovanni si è posizionato penultimo con Finiscimi. Un risultato assai più deludente rispetto al quinto posto del 2022, ma che non ha influito sul ritiro momentaneo del cantante, che nel suo post ha ammesso di aver vissuto con disagio entrambe le partecipazioni al Festival della Canzone Italiana.
“Credo tanto nella mia musica e in questo progetto – prosegue Sangiovanni – ma allo stesso tempo non ho le energie fisiche e mentali in questo momento per portarlo avanti”. Già durante la conferenza stampa a Sanremo 2024 il cantante vicentino aveva manifestato profonda stanchezza soprattutto mentale, derivata da una fama tanto larga quanto logorante per un ragazzo di appena 21 anni.
Sangiovanni ha voluto però specificare che si tratta di una condizione diffusa tra moltissimi giovani come lui, vittime della continua ricerca di un successo ideale. “Mi sento fragile, debole, e non c’è nulla di male a esserlo. […] La terapia non basta e non può essere per tutti, costa troppo. Gli adulti non si domandano perché viviamo questo disagio, è il momento di chiederlo”.
Le parole di Ghemon sull’industria musicale
Quella di Sangiovanni è una decisione di enorme coraggio che solleva diverse questioni, in primis sull’industria musicale. Alle dichiarazioni del cantante hanno fatto seguito numerosi messaggi di sostegno da parte di molti colleghi come Elodie, Levante, Diodato, Syria, Fabri Fibra e in particolar modo Ghemon. Il rapper avellinese – due volte disco d’oro con Un Temporale e Rose Viola – ha scritto un lungo post, sempre su Instagram, in cui spiega con grande lucidità la pressione costante che gli artisti di successo sono costretti a subire dallo star system della musica.
“L’industria musicale attuale promuove un modo di pensare ed agire inquinato dal culto dei numeri e dei sold out che sta determinando più danni di quello che il pubblico può vedere. Molti ragazzi e ragazze stanno emotivamente a pezzi, sento tante depressioni, tanti esaurimenti. Nessuno parla e nessuno gli parla.” Troppi artisti, soprattutto giovani, rappresentano per le case discografiche macchine da hit da sfruttare finché sono in grado di generare profitto, poi vengono gettati nel dimenticatoio. In questo modo viene meno anche la libertà creativa di cantanti e musicisti che devono adeguarsi agli standard dell’industria, spersonalizzando le loro opere.
Lo spiega bene Ghemon nel suo post paragonando le grandi etichette ai franchise come McDonald’s, accomunate dall’uniformazione totale dei prodotti finali. L’autore di Rose Viola invita quindi gli artisti a prendere le distanze da chi omologa la produzione artistica, perché assecondare le proprie esigenze artistiche permette di generare “un atto creativo, e poco importa se sopra non c’è l’etichetta di un marchio famoso”.
Che il mercato discografico sia spietato con gli artisti non è certo una novità. Nel 2020 il Ceo di Spotify Daniel Ek rilasciò delle dichiarazioni controverse su quelli che, secondo lui, dovrebbero essere i ritmi produttivi da parte di cantanti e musicisti. “Non è abbastanza fare un disco ogni 3-4 anni”, diceva Ek lasciando intendere che ormai la musica è nient’altro che un prodotto. Se è così, allora chi fa musica è necessariamente qualcuno che confeziona un prefabbricato, un operaio che deve rispettare tempistiche e standard produttivi. Il numero uno di Spotify proseguiva poi affermando che gli artisti devono mantenere anche “un continuo dialogo con i fan”. Il che si traduce in presenza costante sui social, partecipazioni a festival musicali e non solo, tour nazionali e internazionali ogni anno e troppi altri impegni che impongono all’artista ritmi insostenibili, negandogli il diritto ad avere una vita privata.
Per la società della prestazione essere fragili è proibito
Le parole di Ghemon – che da vent’anni è tra i liricisti del rap più apprezzati in Italia – certificano ulteriormente il grande valore della scelta di Sangiovanni. Nella società dell’iperproduzione e della prestazione rallentare o addirittura fermarsi è segno di debolezza, di incapacità di stare al passo con la frenesia spasmodica della nostra contemporaneità. Se non ti muovi, se non fai numeri, se non stai alle regole del gioco non sei abbastanza, sei debole.
“Fermarsi non è un fallimento, non vuol dire buttare via tutto quello che si è fatto finora, far andare in malora ciò che si è costruito”, racconta lo psicologo Mattia Cis in un’intervista per Vogue. Cis spiega che la fragilità è parte integrante dello spettro emotivo umano, ma le pressioni di una società fondata sulla performance impediscono all’individuo di esternarla e di viverla appieno. Il risultato è un accumularsi di frustrazione e sofferenza che non trovano sfogo, generando stati di disagio e bassa autostima in larga misura nei giovani.
Secondo il sondaggio “Scuola e benessere: oltre l’ipercompetizione e l’omologazione”, nato dalla collaborazione tra Unisona Live e l’Unicef, il 75% degli studenti ha episodi di stress causati dalla scuola; il 44% di loro si sente inadeguato e insicuro a causa dell’ipercompetizione a scuola. Una tendenza che trova ampio seguito in ambito accademico, come raccontava lo scorso settembre Emma Ruzzon, presidente del Consiglio degli Studenti dell’Università di Padova. “Quand’è che studiare è diventato una gara? Da quando formarsi è diventato secondario rispetto al performare?”, diceva Ruzzon cercando di denunciare l’ossessione per l’eccellenza che grava su troppi studenti universitari, portandoli in certi casi a compiere gesti estremi.
La società della performance allora non fa vittime solo nell’industria musicale, non è un affare solo di chi deve gestire successo e fama, ma rappresenta la quotidianità di troppi giovani che non si autorizzano a soffrire, meno che mai a parlare di fragilità. Prendersi un momento per pensare e per uscire dal gioco, come ha fatto Sangiovanni, diventa quindi un atto estremamente significativo che può ispirare tanti ragazzi come lui, ipnotizzati dalla corsa al successo e divisi dalla competizione che ne deriva. Scrive Ghemon in conclusione al suo post: “A te che mi leggi e anche un po’ a me che scrivo: sii te stess*, sii content* di non essere come gli altri e le altre, anzi investi in quello. […] A tutt* verranno i capelli bianchi, la pancia, i reumatismi e i numeri saranno un lontano ricordo. Rimarrà quanto sei riuscit* a restare te stess*”.
di Niccolò Volpini
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