Rosy. Il ritratto di Rosa Bazzi fatto da Alessandra Carati

Il nuovo romanzo dell'autrice finalista al Premio Strega ripercorre la storia di Rosa Bazzi, condannata per la Strage di Erba

“Rosy” è un tradimento: quello che l’autrice, Alessandra Carati, attua nei confronti della protagonista del libro, Rosa Bazzi, condannata insieme al marito Olindo Romano per la strage di Erba.
Ma Rosy non è un romanzo sulla strage: nella copertina e nel titolo non appaiono rimandi espliciti al delitto per il quale i due sono stati condannati: ristabilire la verità dei fatti e sancire la colpevolezza o l’innocenza della donna e del marito non è l’intento che guida l’autrice.

Ciò che importa ad Alessandra Carati, finalista al Premio Strega, è indagare nell’intimità della donna, capirne il funzionamento, scandagliarne i pensieri. E Rosa glielo lascia fare, si apre con lei proprio come fa col confessore negli innumerevoli incontri avvenuti tra il luglio 2019 e il febbraio del 2020, periodo durante il quale le due si sono incontrate con cadenza settimanale, in un rapporto che ha inizio quando Carati chiese di poter partecipare come uditrice a un’intervista che Rosa Bazzi avrebbe rilasciato dal carcere. È la stessa donna a proporle di scrivere un libro su di sè, racconta Carati in un’intervista al Corriere della Sera, avendo appreso che fosse una scrittrice.

Nel suo romanzo Carati non prende dunque posizione in merito alla colpevolezza o all’innocenza della donna, seppure Bazzi, nel corso dei loro incontri continui a professarsi innocente e attribuisca al marito la colpa di averli condannati entrambi alla galera confessando un pluriomicidio di cui non erano i reali responsabili, istigato dalla promessa, ovviamente falsa, di una cella coniugale. Ma Carati non si schiera: abbraccia la complessità, dipinge un ritratto brutale e onesto che non fa sconti, e di Rosa Bazzi esce fuori un ritratto umiliante: una donna analfabeta, ignorante, gravemente depressa e con degli evidenti deficit cognitivi, con un bisogno patologico di essere vista e riconosciuta. È difficile avere a che fare con lei: “è tutta istinto, come un bambino o un gattino”, dice nel libro l’avvocata di Bazzi all’autrice, capisce immediatamente più dal linguaggio del corpo che da quello verbale la disposizione d’animo nei suoi confronti.

Ma la storia che Carati racconta è anche quella di un’emancipazione femminile: per la prima volta il nome di Rosa Bazzi viene pronunciato senza essere associato a quello del marito, col quale conduceva un’esistenza simbiotica. Nella sua vita precedente al carcere, Rosa ne era del tutto dipendente: lui provvedeva a tutti suoi bisogni e le diceva esattamente cosa fare. Lei , che non è capace neanche di leggere e scrivere, in carcere per la prima volta si ritrova da sola, senza la guida della famiglia e del marito, a dovere scegliere per sé stessa, prendersi cura di sé, rendersi economicamente indipendente. In una dimensione che siamo abituati a pensare come di perdita della libertà, Rosa Bazzi per la prima volta la respira, ne fa esperienza. Lei, sempre così dimessa, condiscendente, inizia a lavorare, fa dei progetti per il futuro e dice dei no. Smette di fare visita al marito, si lega a un detenuto, il primo uomo, dice, che non l’ha mai fatta sentire stupida. E Rosa, che certamente non è una donna intelligente, diventa una donna autonoma, scoprendo che l’indipendenza è ciò che le serve per abbattere le barriere, anche quando quelle barriere sono le pareti di una cella, e che lei esiste anche quando nessuno la può vedere, nascosta dalle mura di un carcere che la ripara dagli sguardi benevoli e padroni di Olindo e da quelli morbosi, malevoli della stampa.

di Marta Montana

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