Giustizia riparativa: la lezione di Marisa Fiorani alla Notte d’Evasione di Parma

Al parco Primo Maggio il racconto della storia di Marcella Di Levrano, vittima di mafia, e dell'impegno della madre nelle carceri italiane

La Notte d’Evasione, festival studentesco a Parma, ospita Marisa Fiorani in un incontro sulla giustizia riparativa organizzato da UDU in collaborazione col circolo Arci l’Onda e l’associazione Libera.

La kermesse, che si è tenuta nel Parco Primo Maggio il 23, 24 e 25 maggio, è organizzata dall’Unione degli Universitari in collaborazione con il Comune e l’università di Parma. Tre giorni di musica live e dj-set, ma anche dibattiti e incontri culturali rivolti agli studenti.

È in questa cornice che si è svolto l’incontro con Marisa Fiorani, madre di Marcella Di Levrano, una ragazza di ventisei anni uccisa dalla Sacra Corona Unita nel 1990, che ha parlato della storia della figlia e del percorso di giustizia riparativa che ha intrapreso in seguito alla sua morte.

Con “giustizia riparativa” si intende un modo inedito di concepire il reato e i rei rispetto alla concezione tradizionale della giustizia. Il reato in questa concezione viene visto come uno strappo che viola il patto di cittadinanza, e per ricomporre questo strappo è necessario che avvenga l’incontro tra chi i reati li ha commessi e chi invece ne è stato vittima. Secondo questo paradigma infatti il reato viene considerato in quanto danno arrecato alle persone, e per questo motivo le vittime ricevono un ascolto e un’attenzione che nei circuiti della giustizia processuale solitamente non ottengono.

Entrambe le forme di giustizia non sono da considerarsi alternative: possono coesistere ed essere complementari, soprattutto in seguito alla riforma Cartabia che ha istituzionalizzato il ricorso alla giustizia riparativa, riconoscendola e rendendola una strada percorribile in modo più agevole.

Ascoltare le motivazioni che hanno portato il reo a compiere dei crimini può aiutare ad individuare delle misure di contrasto efficaci, mentre l’incontro con le vittime, che in ogni caso avviene solo quando entrambe le parti hanno espresso il proprio consenso, può spingere i colpevoli a intraprendere un percorso che li porti a ricucire lo strappo creato dai delitti commessi.

In Italia un’esperienza di questo tipo è quella del Gruppo dell’Incontro, il percorso intrapreso da familiari di vittime e responsabili della lotta armata con la mediazione del padre gesuita Guido Bertagna, il criminologo Adolfo Cerretti e la giustizia Claudia Mazzucato.

Ma un percorso simile lo ha fatto anche Marisa, che in seguito alla morte della figlia e all’incontro con Libera ha capito che il suo dolore non poteva restare privato e silente, ma che doveva uscire dalle mura della sua casa per far sì che qualcosa di buono ne potesse scaturire.

Marisa Fiorani ha la voce ferma e lo sguardo dolce, ma che si fa più duro quando racconta la storia di sua figlia Marcella: nata nel 1964, la seconda di tre sorelle. Marisa le aveva avute da un uomo violento da cui dopo qualche anno era scappata trasferendosi da Mesagne a Torchiarolo, in Puglia. La loro vita era trascorsa serena fino a quando un giorno Marcella, che frequentava un istituto magistrale a Brindisi, scompare per due giorni per poi fare ritorno sotto effetto di stupefacenti. Cominciano anni difficili: Marcella diventa dipendente dalle sostanze e la vita di tutta la famiglia viene stravolta. Quando viene espulsa da scuola decide di smettere di studiare, Marisa fa quello che può per aiutare la figlia, ma non sa a chi rivolgersi: tra le persone che portavano la droga nelle piazze di spaccio pugliesi c’erano persino alcuni esponenti delle forze dell’ordine.

Dopo quattro anni infernali a un certo punto le cose cambiano: Marcella scopre di essere incinta, smette di fare uso di sostanze, è felice. La bambina nasce in un gineceo composto da Marisa, le sue tre figlie e le bambine, finalmente serene dopo tante difficoltà.

Ma quella felicità dura poco: quando la bambina ha un problema di salute Marcella decide di rivolgersi al padre della figlia per convincerlo a incontrarla, andando incontro però solo a ulteriori violenze e umiliazioni. Quel rifiuto muove qualcosa in lei: ricomincia a fare uso di sostanze e per procurarsi l’eroina entra in contatto con diversi esponenti della Sacra Corona Unita. I servizi sociali le tolgono la figlia e la affidano alla sorella, e a quel punto Marcella decide di dare una svolta alla sua vita: senza dire niente a nessuno si reca alla Questura di Lecce e per tre anni diventa una confidente, rivelando informazioni preziose sugli esponenti della mafia locale. Si rifiuta però di firmare le carte: era il giugno del 1987 e non era ancora in vigore la legge che protegge i testimoni di giustizia, le forze dell’ordine che raccolgono le sue testimonianze decidono quindi di registrarla di nascosto. Nel frattempo, però, i mafiosi di cui lei fa i nomi cominciano a intuire quello che Marcella stia facendo e temono che possa testimoniare al maxiprocesso che si sarebbe tenuto in Puglia nel novembre del 1990. La minacciano, minacciano di prendere la bambina, la massacrano di botte più volte, poi il 5 aprile Marcella scompare: l’hanno uccisa a colpi di pietre, il suo corpo viene trovato solo dopo dieci giorni.

 Al maxiprocesso in cui Marcella avrebbe dovuto essere una testimone di punta si fanno i nomi di mandanti ed esecutori, ma Marisa non si costituisce come parte civile: non ha più alcuna fiducia nella giustizia e in quelle istituzioni a cui aveva chiesto aiuto tante volte e da cui aveva ricevuto sempre e solo porte in faccia.

Ma lei ha giurato a sé stessa di non farsi uccidere dal dolore, di cercare la verità e di non stare mai zitta come le avevano sempre intimato di fare. Quando incontra l’associazione Libera e l’avvocata  Enza Rando capisce che non è più sola nella sua ricerca di verità e giustizia, e quando il caso viene archiviato finalmente riesce ad ottenere la verità su quello che è accaduto a sua figlia.

Nel 2016 Marisa intraprende un percorso insieme ad altri familiari di vittime di mafia della Lombardia col gruppo mediazione del Comune di Milano; sente che il suo dolore lo conosce abbastanza, adesso vuole conoscere il dolore che c’è “dall’altro lato”. Chiede a un amico magistrato di poter entrare in carcere, e così entra nel carcere di Opera, dove da ventisei anni si riunisce il Gruppo della Trasgressione guidato dal dott. Angelo Aparo.

Ogni mercoledì Marisa si reca in carcere insieme al marito Piero e a Paolo Setti Carraro, il fratello di Emanuela Setti Carraro. Si racconta, racconta la sua storia, e si raccontano anche i detenuti. “Certo, Opera è un carcere modello, non si può dire lo stesso di tante altri carceri”, dice quando le chiedono cosa pensa dell’odierno sistema carcerario.

“Questa è stata una scelta che ho fatto io, non mi ha consigliata ne mi ha obbligata nessuno. Mi ha aiutato e mi aiuta tanto, è già faticoso portarsi dietro un dolore così, poi con rabbia, rancore e odio…mamma mia. A me fa bene vedere che queste persone traggono positività da questa scelta. A volte mi sono sentita chiedere “non ti senti in colpa verso tua figlia?” Ma io non mi sono mai sentita in colpa: sono sicura che Marcella è contenta di quello che facciamo”.

di Marta Montana

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