Perché le parole del Papa non dovrebbero stupirci

Le parole di Papa Francesco sulla "frociaggine" nei seminari non dovrebbero sorprendere. Tuttavia il linguaggio è sostanza: quello che diciamo influisce sul modo in cui pensiamo e plasma la comunità a cui apparteniamo, a maggior ragione se proviene da figure tanto autorevoli

Sono state confermate le parole che già da qualche giorno si vociferava Papa Francesco avesse detto in un incontro a porte chiuse con i vescovi italiani in cui si parlava della possibilità di aprire i seminari, e quindi la possibilità del sacerdozio, anche per gli omosessuali.

“Nei seminari c’è già troppa frociaggine”, ha risposto il Papa.
Le ‘scuse’ sono successivamente arrivate dal Vaticano, che ha fatto sapere che non era nelle intenzioni del Papa offendere o essere omofobo. E valgono dunque come una conferma.

Certo, non è che nel corso del tempo il Vaticano avesse lasciato molti dubbi riguardo la propria opinione in merito all’omosessualità e allo spazio che la comunità LGBTQ+ dovrebbe occupare nella Chiesa Cattolica – e nella società in generale. Anche le posizioni che erano state lette come un’apertura, ad esempio il famoso “ma chi sono io per giudicare un gay che cerca Dio” non si può certo leggere come un cambiamento epocale nell’atteggiamento da parte della Chiesa. ‘Chi sono io per giudicare’ è ben diverso da una benedizione nei confronti delle unioni civili o dell’esistenza delle famiglie arcobaleno. E infatti, già nel 2021, Papa Francesco si era detto contrario alle unioni civili, argomentando che “Dio benedice l’uomo peccatore, non il peccato”.

E se si parla di peccato, allora è evidente che, per quanto morbida, sempre di chiusura (e giudizio) si tratti.

Forse in quanto persone laiche e/o queer dovremmo chiederci perché stiamo aspettando che questa istituzione ontologicamente omofoba e misogina smetta di giudicarci; e smettere di gioire per ogni frase che non sia apertamente ostile nei confronti delle nostre esistenze.

Come scriveva il giornalista Alessandro Gilioli nel 2015:

“Direi che la questione in Italia non è simpatizzare o meno per Bergoglio e magari litigare sul suo reale grado di innovazione: la questione è invece emanciparsi culturalmente e mentalmente da questo riflesso condizionato che ci porta a parlare ogni cacchio di giorno di una chiesa tra le tante del mondo, che ormai per reale frequentazione è minoritaria anche in Italia, insomma imparare a fottersene un po’ dei cardinali e dei vescovi etc.
Questo sì che sarebbe un passo avanti per tutti.”

Insomma, nonostante Papa Francesco sia un papa estremamente nazionalpopolare, complice forse anche la colloquialità del suo stile comunicativo e la sobrietà dei paramenti, se paragonato ai suoi predecessori non si può certo parlare di progressismo e innovazione.

Nonostante queste premesse, le parole del Papa costituiscono comunque una notizia. E non per il turpiloquio in sé, anche se il fatto che a pochi giorni di distanza, mentre il Capo della Chiesa Cattolica parlava di “frociaggine”, la Presidente del Consiglio si sia presentata al presidente della Campania De Luca (in un’occasione formale) come “quella stronza della Meloni” la dice lunga sul livello del discorso pubblico.

Quello che davvero preoccupa delle parole di Papa Francesco è che, in quanto massima autorità della Chiesa Cattolica e dato il peso che il Vaticano esercita culturalmente e politicamente in Italia, ogni parola proferita non è detta solo a titolo personale, ma in rappresentanza di un’istituzione molto potente che si rivolge a una comunità già stigmatizzata.

Il rischio che si corre sdoganando un linguaggio simile, soprattutto a livelli tanto elevati, è di avallare questi comportamenti, normalizzando uno stile comunicativo -e non solo – che fino a qualche tempo fa avremmo definito da bar e che invece adesso, a quanto pare, è ben accetto anche nei posti più rispettabili. Il linguaggio è sostanza: le parole di ciascun di noi influiscono il modo in cui pensiamo e plasmano la comunità cui apparteniamo; figuriamoci quelle del Papa…

di Marta Montana

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