Cara Parma, sei un po’ razzista?
QUANDO PAURA E INSICUREZZA FINISCONO PER LEGITTIMARE I GIUSTIZIERI MASCHERATI
Caro parmigiano, da un po’ di tempo a questa parte la tua città è teatro di vari episodi di xenofobia e il vergognoso pestaggio in via D’Azeglio è solo l’ultimo di questi. È innegabile che i fatti del 24 novembre si basino su sentimenti di odio verso altre etnie, ma ciò che stupisce sono le modalità con le quali i fatti sono avvenuti e le vittime designate.
Come un episodio di odio organizzato diventa un monito per tutti i cittadini?
All’una circa del 24 novembre Abdul, ivoriano dipendente del kebab ‘Carpe Diem’ di via D’Azeglio, si preparava per tornare a casa in bici dopo la giornata di lavoro, ma appena fuori si è ritrovato preda di un gruppo di assalitori. Ben nove e tutti italiani. Seguito sino a piazzale Santa Croce, Abdul è stato fermato, insultato e infine picchiato violentemente. Nonostante le percosse, è riuscito a richiamare l’attenzione del suo datore di lavoro, Said, conosciuto ristoratore algerino, che è corso ad aiutare l’amico ritrovandosi a sua volta vittima del pestaggio. Ciò che salta subito all’occhio, però, non è solo la violenza e la vigliaccheria degli aggressori, ma la loro palese premeditazione. Sì, perché il branco non si trovava lì per caso, era organizzato: abiti scuri, il volto semicoperto e un obiettivo già designato. Insomma, quasi una vera e propria spedizione punitiva in stile ventennio fascista. Vittime accerchiate, schernite e pestate. Tutto nell’anonimato, quasi fosse una resa di conti. Ma nei confronti di chi? Una domanda ancora senza risposta. L’unica ipotesi su cui s’indaga è che il gruppo abbia scambiato il giovane per uno spacciatore extracomunitario, come quelli che di notte fanno la spola nella zona per smerciare droga.
Un evento di questo genere, con alle spalle altri simili con l’amaro gusto della xenofobia, spiega come la situazione stia degenerando. Certi freni sociali che bloccano gli istinti del singolo si sono infranti, dando libero sfogo ai sentimenti più beceri, che non fanno altro che alimentare le divergenze tra ‘ospitanti’ e ‘ospiti’. Anche quando questi ultimi sono perfettamente integrati e si fanno in quattro per andare avanti come qualsiasi altro cittadino ‘per bene’, come nel caso di Abdul e Said.
Due questioni rimangono irrisolte: perché l’aggressione è stata orchestrata così bene? Anzi, perché organizzare così bene un’aggressione così semplice? Era una questione pubblica o privata? Davvero Abdul è stato scambiato per un pusher che infesta le strade o si è scelto un bersaglio qualsiasi, basta che avesse il colore della pelle giusto (o sbagliato, a seconda del punto di vista)? Su questo occorre riflettere.
Ma dall’altra parte, come deve reagire un cittadino a notizie del genere? Con paura? Con vergogna? Certamente sorgono due forti interrogativi. Il dubbio è se il cittadino parmigiano sia non razzista, ma tanto razzista da alimentare e incentivare risentimenti di gruppi di pensiero più estremi e violenti. Perché vivere in una città dove ‘giustizieri mascherati’ si sentono legittimati ad attuare quella che ritengono una giustizia privata, è segno che c’è qualcosa che non va. Se il branco ha agito è perché si sentiva in diritto di farlo, forte del consenso di almeno una parte di questa comunità. Di questo c’è da aver paura e sì, bisogna vergognarsi, perché la vittima di questi avvenimenti non è Abdul o Said, ma l’intera comunità. E se c’è qualcuno che pensa di andare incontro ai malumori dei cittadini – siano dovuti agli immigrati o alle tasse alte, fa poca differenza – senza passare per le istituzioni, vuol dire che c’è un problema. L’altro interrogativo, invece, riguarda l’identità del gruppo. Non tanto le generalità dei singoli, più utili alle forze dell’ordine, ma quanto l’appartenenza di questi. È un gruppo organizzato sotto una bandiera o un gruppo di amici fidati? Sono responsabili di altre violenze?
Capire le motivazioni profonde che hanno portato a questo episodio non è semplice, ma sicuramente anche a Parma c’è una parte che non vede di buon occhio la forte presenza straniera. Lo dimostrano gli affitti negati agli extracomunitari, o episodi recenti come l’incendio all’ex caseificio destinato all’accoglienza di 8 richiedenti asilo. Le proteste della comunità sono il punto da cui bisogna partire. Perchè non si tratta solo di singoli fatti di cronaca ma di manifestazioni di un fruscio sempre più eloquente.
È evidente: per le strade di Parma i casi di illegalità sono aumentati e parte dei delinquenti sono di etnia africana. La Pilotta si ritrovata trasformata in una piazza di spaccio; la zona di via D’Azeglio, punto di ritrovo per gli studenti, non è più così accogliente e nelle traverse gli spacciatori non si preoccupano di nascondersi mentre organizzano la giornata di lavoro. San Leonardo, quartiere che a detta dei cittadini “era bello e si stava bene” ora per molti “risulta invivibile e pericoloso”. Ma attribuire tutte le colpe agli immigrati è ipocrisia bella e buona. Prima di tutto perché se questi entrano nel mondo della delinquenza è solo grazie a ‘noi’, che ne offriamo già una forma ben assestata. Chi rifornisce i pusher locali? Chi controlla lo spaccio? Sicuramente non persone che si ritrovano nel territorio da poco tempo. In secondo luogo perché a Parma ci sono moltissimi esempi di stranieri che si sono integrati, conducono una vita regolare e magari in più fanno di tutto per inserire i propri figli e non sentirsi dire dietro “negro di merda”. Uno di questi è Abdul.
In tutto questo marasma, c’è da porsi una domanda più che lecita: chi è che dovrebbe proteggerci da questi pericoli? Chi dovrebbe fare in modo che Parma sia una città sicura? Il Comune attraverso migliori politiche di integrazione? Le forze dell’ordine con un aumento dei controlli? O forse il Governo, che potrebbe prendere il toro per le corna offrendo appoggio ai Comuni?
Nonostante possa sembrare che la risposta risieda qui, in realtà non è proprio così. Chi deve occuparsi, in primis, di questi problemi siamo noi cittadini. Prima che con grandi manifestazioni popolari o cortei, semplicemente con la coscienza di ognuno, modificando l’approccio nella vita di ogni giorno. L’esempio deve arrivare da noi. Perchè continuando ad associare la delinquenza a un’etnia, non faremo altro metterci il paraocchi: la delinquenza, come la violenza, non ha razza. La storia lo insegna.
Chiedersi se i parmigiani siano razzisti è un dubbio che non avrà mai risposta certa, ma c’è un altro modo di vedere le cose: quando Parma è razzista?
Parma è razzista quando a San Leonardo non si può camminare soli, quando la Pilotta puzza di piscio e marijuana, quando gli autisti Tep vengono aggrediti. Quando pensa che il lavoro manchi a causa dello straniero e che i fondi pubblici siano destinati alla loro tutela invece che agli italiani.
Ma questa città smette di essere razzista quando chi ha saputo di Said ha dato prova di solidarietà, affiggendo un messaggio nella serranda del locale e augurando una pronta guarigione, o magari partecipando alla marcia di protesta organizzata in suo onore. Parma non è razzista quando l’impiegata delle Poste non è scocciata di dover spiegare le cose in pseudo-francese, quando all’asilo i bambini di ogni etnia giocano senza sapere neanche cosa sia il razzismo, quando la Consulta dei Popoli scende tra i cittadini, mostrando alla città la ricchezza delle culture che convivono.
Caro parmigiano, la tua Parma è razzista quando si spaventa, perché nella vita di ogni giorno la paura, l’insicurezza generano aggressività e che viene scaricata sull’elemento più fragile. Ecco quindi che alla notizia di un nuovo stupro, rapina o furto, cresce l’idea che ‘ogni negro è stupratore’. Ma fare in modo che ognuno cambi il proprio piccolo pezzo di società, è la migliore risposta alla paura.
di Fabio Manis
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