“Ho deciso di diventare anoressica per farla stare zitta”

LE MILLE ANORESSIE: TRA PERFEZIONISMO E INSICUREZZA, PROVE E AMBULATORI

anoressia come mostro da salute.pourfemme Accademie, scuole professionali, corsi di perfezionamento, istituti centennali: troppi non fanno eccezione.
Questo mondo spesso gira al contrario. Le conseguenze, però, di inversioni di marcia e manovre pericolose arrivano con una puntualità sconcertante: che sia mancanza d’autostima, perfezionismo, volontà di compiacere, subire il giudizio altrui, punti di riferimento che sviano dalla famiglia – o tutto questo insieme – la via di sfogo che si delinea da età non sospette è quella del disturbo alimentare.
Come spiega il dottor Massimiliano Sartirana, psicologo attivo al centro Ada di Verona, la difficoltà enorme nell’approcciarsi al percorso terapeutico in casi di anoressia per chi arriva dalla danza professionale consiste nel fatto che in un sistema di regole, abitudini e azioni che non prevede margine d’errore come la ricerca della linea perfetta, il disturbo alimentare può trovare la sua anima gemella.
Compresi solo da chi condivide la stessa quotidianità, la prima risposta dei ballerini ad una terapia d’urto come quella dell’aumento di peso è di tranquillo e categorico rifiuto.
Il primo obiettivo dei terapeuti perciò è individuare la rete di ragno in cui si parte dal cibo, si passa alla paura d’ingrassare e al senso di colpa, per tornare ad una restrizione, e individuarla come parte di un problema, non della persona, meno che mai della tranquillità con cui l’alimentazione dovrebbe fare parte della vita. Tutto ciò va fatto cercando di inserirsi, con un rapporto di fiducia, tra il paziente e l’insieme di certezze e ‘persone sbagliate’ che lo ha sostenuto finora.
La delicatezza di questo progetto è infinita: non si abbattono colonne di marmo alla base, sperando che il capitello rimanga felice a mezz’aria.
Per questo, laddove l’impegno quotidiano per il mantenimento del sottopeso ostacola i ragazzi nel prendere coscienza del problema, si propone una sospensione temporanea dell’attività. “Certo che – aggiunge il dottor Sartirana – ci si scontra con una realtà per cui la continuità è scontatamente un requisito imprescindibile”.
Perla di sollievo, il successo della terapia non è il professionismo sportivo, stanato il disturbo alimentare al di là di ogni ragionevole dubbio. “Per tanti è come smettere di fumare: nel ripensare all’angoscia con cui per ore ed ore ci si tormentava alla ricerca della perfezione, viene la nausea”.

A testimonianza della difficile collaborazione con i terapeuti, una ragazza di 21 anni, che chiameremo Cecilia, racconta la sua travagliata risalita: “Ho passato mesi ad andare non per guarire, ma per spiegare che non avevo scelta”. In 11 anni di percorso accademico classico e 7 anni di studio della danza contemporanea, viste accademie e scuole storiche in diverse città d’Italia, la campana che ha sentito suonare è stata sempre la stessa. La differenza sembra farla il punto della malattia a cui si arriva: “Da piccola facevano un lavaggio del cervello. Ad una bambina della propedeutica è stato detto ‘Se non dimagrisci, non ti ammetto al primo anno accademico’ (8 anni, Genova). Da grande spingevano all’anoressia con due mani e senza scrupoli. Avere un disturbo alimentare dava l’impressione di poter scegliere la malattia più ‘efficace’: alla fine ho deciso di diventare anoressica per farla stare zitta. O almeno per essere sicura che non stesse parlando di me”.
I rischi materiali di una sofferenza accettata come compromesso artistico non sono facili da individuare: “Dagli 11 ai 20 anni ho danzato a perdifiato. Alla fine sono rimasta senza (19 anni, Reggio Emilia). Mi sono accorta di cosa rischiavo solo quando mi mancavano le forze alle prove. Avevo bisogno di stendermi prima per prendere energie, poi per recuperarle. La concentrazione serviva per non svenire”.
Entrare negli ambulatori, come fa capire dal racconto Cecilia, non è facile, è insopportabile: “Stavo male dappertutto, mi vergognavo in sala, mi vergognavo a venire qui, dove cercavano di spiegarmi delle cose, ma sentivo solo che avevo sbagliato tutto”. Nelle orecchie, la minaccia ad una compagna: “Non ti correggo finché non dimagrisci, perché dal sudore sento la puzza di quello che hai mangiato” (15 anni, Genova).
Ma anche i vittoriosi, che come Cecilia si sono messi davanti a sè stessi e sono riusciti a non ascoltare quell’ “urlo di vergogna” che esplode dallo specchio, sentono come prospettiva l’apprendimento del problema e la rassegnazione a conviverci il più pacificamente possibile.
Una convivenza difficilissima, da affrontare tutti i giorni, quattro volte al giorno. Un percorso che giunge col tempo al limite dell’estenuante, di fronte a cui la tentazione di farsi travolgere non demorde mai. “Bisogna fermarsi e provare a respirare, fa male perfino quello. L’importante è non essere da soli“.

Ce lo spiega Fabiola De Clercq, che nella presentazione al libro ‘L’ultima cena: anoressia e bulimia’ di Massimo Recalcati, scrive: “L’anoressia non è la vera malattia del soggetto, è il suo progetto di cura. Lasciarla significa abbandonare un sistema intero di regole, di abitudini, di pensieri, di azioni che ha avuto per chi ne soffre la funzione di una zattera di salvataggio”.
Senza più zattera dunque, l’unica via di fuga è raggiungere la riva.
La sfiducia in agguato Cecilia la spiega con la consapevolezza che anche con i piedi stretti alla terra, da una parte ci si sente sempre un po’ più forti, dall’altra si guarda ad un cammino che non ha una vera e propria fine, ma si prospetta come una continua ricerca di pace, di equilibrio, di sicurezza sulla base di una nuova e ancora sconosciuta consapevolezza delle proprie capacità e del proprio valore.
Per questo, chi soffre di un disturbo dell’alimentazione, non accetta compassione, pietismo e appoggio estemporaneo, ha bisogno solo di non essere mollato su una riva.
Allora, forse ha ragione Fabiola De Clercq, “forse per ricevere dentro di sé un’immagine semplice e forte si deve essere stati scavati dal dolore”, ma a detta di Cecilia “c’è una via d’uscita, anche dall’inferno”.
Bisogna trovarla, pur andando incontro a una grande rinuncia: “Non mi sono mai pentita veramente. Nei momenti di danza più pura, dove mi sono sentita più espressa, ho ballato sofferenza. Lo lascio fare a chi riesce a farlo con gioia.”

 

di Andrea Francesca Franzini

Leggi anche Le mille anoressie: tra perfezionismo e insicurezza, prove e ambulatori

Scrivi un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*