La solidarietà verso Spada è la prova della sua legittimazione

QUELLA BRUTTA ABITUDINE DI MITIZZARE IL CATTIVO

 LE MAFIE PROSPERANO DOVE LO STATO NON C'È“Giornalisti pezzi merda lasciate stare chi toglie i ragazzi per strada e chi fa del bene; onore rispetto alla famiglia Spada”. Solo uno dei migliaia di post comparsi sul profilo Facebook di Roberto Spada a seguito della testata – ormai celebra quasi quanto quella di Zidane – rifilata al giornalista di Nemo, Daniele Piervincenzi. Togliamo subito il dubbio: non si è trattato di un post isolato o di un semplice gruppo di ‘sbandati’, questa è stata la reazione di una parte rilevante della cittadinanza di Ostia; quella stessa che, per paura o per convenienza, non denuncia i gruppi criminali sul litorale romano.

Non è la prima volta che, quando nel mirino finisce la criminalità locale, una parte della cittadinanza si schiera compatta con il boss di turno. E non è solo una manifestazione di solidarietà ma una pubblica legittimazione.
Successe lo stesso a Campolongo Maggiore, terra natale dell’incontrastato boss della Mala del Brenta Felice Maniero, dove all’epoca del maxiprocesso gran parte della popolazione espresse solidarietà ai mafiosi accanendosi contro quei giornalisti che avevano iniziato a frequentare il paese solo per raccontare la storia della banda. Ancora oggi, in quelle zone, si possono acquistare magliette e gadget dedicati al boss della mafia veneta. Quasi fosse l’effige di un Che Guevara.

La domanda pare scontata: perché siamo pronti a schierarci dalla parte dei cattivi?
Non si può negare: generano sempre un grande fascino, nella vita di tutti i giorni come nelle sale cinematografiche. Proprio certi film hanno trasmesso il messaggio che il mafioso è una reincarnazione di un Robin Hood misto ad Arsenio Lupin. Criminali ma con un animo nobile. Il motivo è semplice: il pubblico deve immedesimarsi nel protagonista, anche se ‘cattivo’. I personaggi finiscono però per essere snaturati, si fanno meno brutali, ammorbidendo la percezione del mafioso in una certa fetta di popolazione che si abitua alla violenza, quasi la considera uno strumento legittimo.
Così in alcuni il brutale attacco di Spada ha finito per incrementarne il mito, o almeno giustificarlo. L’esempio è nella provocatoria domanda lanciata sui social dallo stesso figlio del boss: “Voi al mio posto cosa avreste fatto?” Questa frase non può essere trascurata, soprattutto nel suo messaggio implicito: chi sta dalla mia parte sa come ci si deve comportare in certe situazioni. Un’autentica autorizzazione a reagire in modo anche molto violento poiché la linea è stata dettata. Coi fatti prima e con le parole poi.
Non si è trattato semplicemente di un naso rotto, è stata una vera e propria dimostrazione di potere, di supremazia, di certezza di impunità. Il re ha fatto capire chi comanda.

Ma ognuno è re a casa sua: il risalto mediatico dato alla vicenda ha rafforzato la convinzione di alcuni abitanti che quella di Spada fosse una reazione nei confronti della provocazione di un giornalista, e quindi l’atto di violenza assolutamente giustificato. Dall’altra parte, Spada non è mito per il resto del Paese, che ha avuto tutt’altra percezione.
L’effetto è stato un paradosso: una testata ha generato un’ondata di indignazione ben più grande di quella riservata per le decine di omicidi di mafia che accadono nell’indifferenza collettiva ogni anno. Davanti a una tv nazionale e fregandosene degli effetti che quelle immagini avrebbero generato, Spada ha deciso di far vedere chi comanda come farebbe nel vicolo sotto casa dove si sente protetto da chi lo mitizza.
Ed è proprio questo il punto: i miti e le leggende sopravvivono grazie a chi li racconta.

di Mattia Fossati

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