Dialogo col vero protagonita di… Lady Bird

INTERVISTE IMPOSSIBILI: CONFESSIONI DI UNA RECENSIONE

Questa settimana è tempo di riprendersi dopo la sbornia degli Oscar 2018, la cui premiazione si è tenuta nella notte tra il 4 e il 5 marzo. Dopo i grandi retroscena a film come The Post, La Forma dell’Acqua e Il filo nascosto, ParmAteneo passa ora ai raggi X Lady Bird, che nonostante le cinque nomination non è riuscito ad aggiudicarsi nemmeno una statuetta.

Salve, gradisce presentarsi?
Ovviamente, sa, le presentazioni fanno parte del mio lavoro. Salve, sono “Lady Bird”, ovvero il nome con cui la protagonista, Christine McPherson, decide di farsi chiamare per tutta la durata della storia.

Un nome molto particolare, non le pare? Il suo significato non sembra così facile da intuire, in un primo momento…
Forse, ma di sicuro, una volta visto il film, diventa immediatamente chiaro. Del resto, a questo servono i nomi: a veicolare dei contenuti che non sono da subito evidenti ma che lo diventano col passare del tempo. Un qualcosa che ci accompagna per tutta la vita e cerca in qualche modo di definirla.

Perché, secondo lei, Christine McPherson sceglie di usarlo?
Ne ho discusso ampiamente prima e durante le riprese con la sceneggiatrice e regista della pellicola, Greta Gerwig. Del resto, non poteva certo farmi interpretare una parte così importante senza spiegarmela nei minimi particolari. “Lady Bird” rimanda ad una metafora, forte quanto semplice: il giovane, in questo caso donna, che “vola via” e lascia il nido per andare ad affrontare il mondo. Una prova che chiunque ha dovuto superare, prima o poi, un momento importante che certifica il passaggio all’età adulta.

Sì, in effetti l’allegoria è evidente. Ma secondo lei perché la protagonista decide di chiamarsi proprio in quel modo?
Per mostrare che è diversa, per indossare un’identità che più, secondo lei, si addice alla sua persona o a quella che vorrebbe diventare. Christine cresce, infatti, in una città che odia e che la nausea, Sacramento – il “Mid-west della California” – dove si sente prigioniera e frequenta una scuola cattolica che reprime completamente le sue ambizioni, la sua sensibilità. Aspira al massimo, crede di poter pretendere molto di più. Vuole entrare in un buon college, magari sulla East Cost, per andarsene da quella periferia arretrata che la incatena ad una routine senza prospettiva. Questo la pone in contrasto con la famiglia, che naviga in una cattiva situazione economica e che invece si trova a suo agio in quella città. Chiamarsi “Lady Bird” per lei è un tentativo di scappare, un modo per sopportare quella prigionia da cui non vede l’ora di prendere il volo.

Una storia che sembra quasi avere delle sfumature autobiografiche…
Non sbaglia. Greta Gerwig si è ispirata, non a caso, alla sua esperienza, alla sua adolescenza: anche lei desiderava andarsene da Sacramento per raggiungere la grande città, New York, così da vivere secondo le sue ambizioni. E ce l’ha ampiamente fatta, direi.

In effetti, la Gerwig si è affermata come importante esponente del mumblecore, il movimento di cinema indipendente sorto nel 2000 che si distingue per pellicole a bassissimo budget. Questa può essere considerata la sua prova di maturità?
Beh, ha già lavorato in produzioni importanti, come To Rome with Love e Jackie, il film su Jacqueline Bouvier, la moglie di John Kennedy impersonata da Natalie Portman. Di sicuro questo è il lavoro che ne segna la maturità come persona e come autrice. Anche perché si dice che per diventare una vera scrittrice, sia fondamentale imparare a parlare di se stessi, di cose personali. Del resto, la nomination alla Miglior Sceneggiatura conferma questa crescita e le altre come Miglior Film e Miglior Regia testimoniano una grande consapevolezza del mezzo cinematografico e delle sue possibilità.

Parlando degli Oscar 2018, anche due protagoniste del film hanno ricevute candidature importanti: Saoirse Ronan (che interpreta Christine) e Laurie Metcalf (sua madre Marion) rispettivamente per miglior attrice e miglior attrice non protagonista. Ma poi nessuna di queste è stata premiata il 4 marzo.
É un peccato, ma credo che alla fine le vittorie di Frances McDormand e Allison Janney sia giuste e, di sicuro, le mie colleghe hanno dato parecchio filo da torcere ad entrambe. La piccola Saoirse può essere ormai considerata una enfant prodigé della cinematografia statunitense. Magnetica, forte, candida eppure sensuale, scapestrata e dolce, adulta e infantile, sullo schermo restituisce una totalità di sensazioni contrastanti come solo un talento naturale può dare. Piccola, che dico? Ha 23 anni ed è già alla terza nomination! Crescono così in fretta. Laurie, invece, non è una sorpresa per questa che da almeno dieci anni è la sua parte: quella della mamma tenera e dura, “inquietante e adorabile”, come viene descritta nel film. Non a caso, ha già portato i panni di madri che crescevano figli complicati, come Sheldon Cooper nella sitcom The Big Bang Theory.

Il rapporto tra le due può essere considerata un’altra delle chiavi di lettura della storia, forse quella da cui non si può prescindere…
Sicuramente. Anche perché il loro legame assume una valenza significativa, diventa fin da subito una metafora scoperta del nocciolo del film: la storia di una giovane donna che odia il posto dove vive e sogna di andare a New York. Un racconto di formazione, sul desiderio di lasciarsi alle spalle le proprie radici che non vengono del tutto apprezzate. E poi, proprio in questo modo, dopo essere finalmente partiti, si riesce a fare la pace con le proprie origini, ad apprezzarle e, soprattutto, a sentirne la mancanza. In fondo, è una vicenda universale che parla a tutti quei ragazzi che hanno dovuto lasciare la propria casa, a volte felici di farlo e a volte no, per andare incontro al futuro. E, come spesso succede, andando via si capisce l’importanza di quello che abbiamo lasciato, del posto abbandonato alle proprie spalle. Lady Bird parla a tutti noi e ci ricorda qual è il costo di crescere.

Ultima: un parere su questa notte degli Oscar, che ci siamo appena lasciati alle spalle.
Puro spettacolo. Il Dolby Theater è da sempre un’istituzione del cinema e l’evento, tanto per cambiare, è stato seguito in mondovisione da oltre 200 paesi collegati a discapito del fuso orario. Una serata magica, per usare un aggettivo molto abusato. E sono contenta che le statuette siano state equamente distribuite e che molti premi siano andati a film forse inattesi, come Blade Runner 2049, premiato per gli effetti speciali e la fotografia, Chiamami col tuo nome per la miglior sceneggiatura non originale e Dunkirk che ha portato a casa tutti gli Oscar “tecnici”. E che dire sulla Forma dell’Acqua? La sua vittoria era scontata.

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