I due volti di Palermo

Massimo Frasson / Flickr

È il mare a darti il benvenuto e un vento caldo, per niente simile a quello che ho lasciato in pianura, a soffiarti sul volto appena il piede tocca il suolo, e immediatamente è come sentirsi stretti in un abbraccio tra acqua e terra che non lascia scampo. Eccoli gli opposti che si incontrano e che si lasciano percepire subito, appena arrivi.
I palermitani sul volo sono parecchi e si riconoscono dai tratti decisi del volto e dall’accento, altrettanto inconfondibile. Chi torna a casa per un paio di giorni approfittando della sosta lavorativa, chi ritorna dopo un viaggio e chi non è mai partito davvero ma non vedeva l’ora di arrivare.
Nel tragitto dall’aeroporto, dietro i finestrini del taxi, cerchi di scorgere una prima impressione della città: qualcosa che ti racconti la verità, che esprima la sua essenza, che annulli lo stereotipo. Il primo a parlare è lo svincolo per Capaci: la stele a lato della carreggiata e una crepa sull’asfalto testimoniano una ferita ancora sulla pelle e, insieme, il tentativo di scrollarsi di dosso una pesante eredità del passato che minaccia minuziosamente il presente, inserendosi, viva, nelle pieghe della società. Sono passati poco meno di trent’anni da quel 23 maggio 1992, quando persero la vita il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta: troppo tempo per parlarne ancora, troppo poco per voltare pagina.

Dopo la degradazione dei primi tratti di asfalto metropolitano, l’incanto ti appare agli occhi, e decidi di proseguire a piedi, per assaporare l’aria dei contrasti. Maestosamente bella e disgraziata, Palermo ti rapisce dal primo sguardo che le getti addosso e, passo dopo passo, ti convince ad innamorarti di lei, a guardare oltre i vicoli sporchi e insalubri, oltre i calcinacci dei muri o i balconi rattoppati con sacchetti di plastica. Ad attenderti dietro l’angolo, c’è la bellezza del dialogo culturale, di un periodo lontano secoli, quando l’incontro tra il mondo europeo e quello arabo costruiva autentiche meraviglie, prodigi dell’umanità, riconosciuti dall’UNESCO, il 3 luglio 2015, ed inseriti in un percorso storico e artistico “Arabo-normanno” che coinvolge le cattedrali di Palermo, Cefalù e Monreale.

Il profumo dei cannoli e delle arancine fritte lungo la strada si mescolano ad una sacralità non ostentata, quasi nascosta, sussurrata, tradotta in un atteggiamento fiero e referenziale dei palermitani. Grandi e piccoli appaiono tutti fortemente legati al territorio, alle tradizioni, alla coppola e alla cassata, al Cristo Pntocratore e a San Giovanni degli eremiti, a Morricone e al mercato di Ballarò, mentre osservano le due facce di una medaglia preziosa, desolatamente sincera. Senza scegliere, la città tutto tiene a sé, gelosamente stretto, come i tratti di uno stesso carattere che non si riescono a smussare, come gli opposti che si esaltano. Tra il silenzio e il caos, prende forma questa città unica, affacciata sul mare, nata dall’incontro delle differenze, che respira insieme polvere e magia.

Guardandosi intorno, scorgendo oltre il bagliore accecante dei mosaici d’oro, delle chiese e dei palazzi, diventa impossibile non chiedersi dove sia la legge dello Stato italiano, dove quella del diritto europeo e dove finiscano i sussidi economici per preservare e difendere queste opere dall’inesorabile azione del tempo e dello smog.
Innegabile non arrivare a chiedersi se non sia possibile fare di più per un territorio e un popolo dignitosamente rassegnato al susseguirsi degli eventi e ad accettare inerme un destino, come fosse già scritto.
Il momento di ripartire si avvicina e, ancora, vorresti restare a guardarla, ammirarla e trattenerla per portarne via un pezzo o un dettaglio sensoriale.
Questo ti lascia in dono Palermo, le tracce antitetiche che hai messo nel bagaglio a mano prima di decollare: negli occhi la meraviglia e nella mente interrogativi aperti, che appaiono senza risposta certa.

di Giulia Scuderi

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