L’ipocrisia occidentale contro l’estremismo islamico

LA MORTE DEL LEADER DELL'ISIS AL BAGHDADI È DAVVERO UN EVENTO SIGNIFICATIVO NELLA GUERRA CONTRO L'ESTREMISMO ISLAMICO? MA SOPRATTUTTO: COSA DEFINIAMO "ESTREMISMO"?

buffalonews.com

Il 27 ottobre il presidente Trump ha informato in conferenza stampa che Abu Bakr al Baghdadi, leader dell’organizzazione terroristica ISIS, è morto a seguito di un’operazione militare USA, nel nord-ovest della Siria. Come ha riportato lo stesso Trump, l’auto proclamato ‘emiro’ dello Stato islamico si è fatto saltare in aria, dopo esser finito in un tunnel senza via di fuga. Durante il raid americano sono morti diversi affiliati di DAESH. In particolare, la Casa Bianca afferma che nell’operazione è deceduto anche Abu al-Hassan al-Muhajir,  uno degli esponenti di punta dell’ISIS. 

USA Department of Defense

“The world is now a much safer place” ha commentato Trump, vantando la capacità dell’azione USA nel contrastare il terrorismo islamico. È innegabile che per la Casa Bianca, l’Islam rappresenti una grave minaccia ai valori dell’Occidente e che in quanto tale dev’essere contrastato con ogni misura. Il Presidente è perfino arrivato a definire la morte di al Baghdadi un evento anche più significativo dell’uccisione di Osama Bin Laden. Dopotutto, questo successo militare non può che giovare alla campagna elettorale di Trump. Come si potrebbe infatti accusare di impeachment il presidente che ha sconfitto il terrorista più pericoloso del mondo?

La verità è però che la morte di un grande capo costituisce per lo più un fatto simbolico ed è sbagliato pensare che la sua uccisione comporti anche la disfatta di ciò che egli rappresenta. Come la storia insegna, infatti, dietro a un leader caduto c’è sempre qualcuno disposto a sostituirlo. E niente può assicurare che il secondo sarà migliore del primo. Difatti, il 31 ottobre l’organo di propaganda jihadista al-Furqan ha presto annunciato il nome del nuovo califfo dell’ISIS: Abu Ibrahim al Hashimi al Qurashi.

Sì: la storia è maestra, ma non sempre siamo disposti a coglierne gli insegnamenti. La convinzione, tutta occidentale, che si possa entrare in un Paese, agire secondo i propri interessi nazionali, per poi tornare in patria come paladini della giustizia è da superare. Così come pensare che l’uccisione del leader di un gruppo terroristico possa essere festeggiata come la soluzione al gruppo stesso. Lo abbiamo visto con la caduta del regime di Saddam Hussein, nell’aprile 2003. Con l’uccisione di Gheddafi in Libia nel 2011 e lo stesso anno con quella di Osama Bin Laden. I vuoti di potere vengono sempre colmati e non necessariamente in meglio.

 

Parlando di Gheddafi, la situazione libica dopo la caduta del suo governo è precipitata nel caos. Le forze occidentali lasciarono la ricostruzione post-bellica nelle mani dei libici. Dopotutto il grande capo era morto, la Libia era proprietaria di giacimenti di petrolio e le forze ribelli sul territorio si erano unite contro il nemico comune. Tutto lasciava pensare che il Paese avrebbe finalmente compiuto quella transizione democratica necessaria ad assicurarne la pace e la stabilità politica. Come però sappiamo bene, non è andata proprio così.

Ma un’altra questione merita di essere affrontata: l’ipocrisia occidentale nei confronti dell’estremismo islamico. Le grandi potenze hanno stretto, stringono e continueranno a stringere accordi commerciali, strategici, militari con rappresentanti dell’estremismo. La Russia è estremista. L’Arabia Saudita è estremista. La Turchia, l’India, Israele. Eppure, qualche estremismo piace più degli altri.

Israele è, ad esempio, uno Stato che persegue una politica discriminatoria e segregativa nei confronti del popolo palestinese. È Golia contro Davide, dove a vincere stavolta è però il primo. Con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca la relazione tra i due paesi si è intensificata tanto che, nel maggio 2018,  Washington ha spostato la propria ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. “Fino a qualche anno fa una decisione del genere sarebbe stata inimmaginabile. Gerusalemme è forse la città più contesa della storia e dalla fine della Seconda guerra mondiale sia gli israeliani sia i palestinesi la rivendicano come capitale del loro stato” ha commentato il giornalista de Il Post, Luca Misculin

Ma l’ipocrisia non è solo un fenomeno occidentale. A poche ore dall’annuncio di Washington sul decesso di al Baghdadi, sono arrivate le congratulazioni dai grandi capi di governo. Il presidente turco Erdogan ha dapprima definito il PKK e l’YPG – due milizie curde in prima linea nella battaglia contro l’ISIS – organizzazioni terroristiche alla stregua dello Stato Islamico. Poi, si è detto convinto che l’operazione USA porterà pace all’umanità.

Mentre il principe saudita Mohammed bin Salman considera l’operazione militare un passo storico nella battaglia contro l’estremismo. Come però ricorda Amnesty International, il Paese è ben lontano dal potersi permettere certe affermazioni. “La coalizione guidata dall’Arabia Saudita ha contribuito in modo significativo a una guerra che ha devastato lo Yemen”. Inoltre, in Arabia la libertà di espressione e associazione è contrastata con l’arresto e la reclusione. La tortura è legittimata come strumento di punizione dei reati. E ovviamente vige una radicata e radicale discriminazione delle donne e delle minoranze religiose.

Anche Mazloum Kobani, leader delle Forze democratiche siriane è intervenuto per ricordare il coinvolgimento essenziale della propria intelligence nell’individuazione di al Baghdadi.  

Le FDS sono un’alleanza di milizie a prevalenza curda – in cui rientra anche l’YPG – da anni impegnata nella lotta contro l’ISIL. Si tratta delle stesse milizie che il presidente Erdogan definisce terroristiche.  E le stesse che, dallo scorso 7 ottobre, hanno sofferto il cambio di rotta della Casa Bianca in merito al conflitto curdo-turco.

“È tempo per noi di uscire da queste ridicole guerre senza fine, molte di queste tribali, e di riportare a casa i nostri soldati” aveva informato il presidente Trump, ordinando il ritiro dell’esercito USA, a difesa del territorio curdo, dal confine turco-siriano. “Combatteremo dove ci sarà un beneficio per noi, e combatteremo per vincere”.

Ma perseguendo una politica di interventismo selettivo, combinata ad un incremento degli investimenti nella difesa, gli Stati Uniti e con essi l’Occidente finiranno per fallire nel proporsi come alternativa democratica alla deriva autoritaria che sta affliggendo il sistema internazionale. Politiche unilaterali, interessi nazionali non possono che affondare quelle strategie di multilateralismo e di cooperazione che invece dovrebbero caratterizzare i rapporti fra stati.

Oggi sembra, piuttosto che “the spirit of alliance” – come lo chiama Erdogan – sia rivendicato soltanto di fronte a operazioni belliche che altrimenti non troverebbero attuazione.

di Martina Santi

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