Tutte le volte che è morta Ana Maria

MORIRE NON BASTA. SUI SOCIAL SI SCATENA L'ODIO CONTRO LA VITTIMA DI UN OMICIDIO E LE PEGGIORI AGGRESSIONI ARRIVANO DA ALTRE DONNE

donna uccisa partinico

Foto di Isabella Quintana, Pixabay

Ana Maria Di Piazza, 31 anni, arrivava dalla Romania ed era cresciuta in Italia con una famiglia che l’aveva accolta, lavorava e aveva un figlio di 11 anni. Nel suo grembo portava un’altra vita, generata insieme all’uomo con cui da tempo aveva una relazione segreta. Omicidio, occultamento di cadavere, procurato aborto. Non è bastato l’elenco dei reati commessi da Antonio Borgia – 51 anni imprenditore edilizio – lo scorso 22 novembre a Partinico, nella sperduta campagna siciliana. Coltellate al ventre, percosse. Non è bastata l’efferatezza del gesto di tagliarle la gola. Non è bastato neppure perdere la vita. Antonio l’ha aggredita, l’ha uccisa e poi è andato dal barbiere. “Zoccola”, “Se l’è cercata”, “Ma pure lei…”

La tragedia si è consumata in fretta, come anche le indagini dei Carabinieri. Dopo aver raccolto le testimonianze di chi,  nelle campagne di Balestrate, si era accorto  di una donna che gridava e di un uomo che la rincorreva, è stato trovato un coltello. Poco più in là, il corpo di Ana Maria avvolto tra coperte. Nel giro di 24 ore le parole del reo confesso erano trascritte in un verbale. Antonio, incapace di domare la rabbia, ha ammazzato la giovane donna perché aveva minacciato di dire tutto a sua moglie

donna uccisa partinicoMa il giorno dopo il suo assassinio, Ana Maria è morta di nuovo. Le sue carnefici stavolta sono altre donne, altre mamme: l’eco della sua morte barbara, nel disgraziato tribunale dei social, è durato il tempo di un clic. Quando i giornali hanno pubblicato le parole di un’altra protagonista della vicenda, Maria Cagnina, moglie di Antonio, la virata del sentiment era compiuta: imperturbabile, la donna ha dichiarato che sarebbe rimasta accanto all’uomo buono che aveva per marito e al padre dei suoi figli.  “Antonio aveva troppa paura che il mio amore, la dedizione e la fiducia per lui venissero a mancare – ha dichiarato ai microfoni del programma Quarto grado – Mi amava. La paura più grande era di perdere me e la sua famiglia. È una situazione che è sfuggita di mano”. Immediatamente, un’orda al femminile esprime tutta la solidarietà per Maria: il marito degli altri non si guarda e sul petto della trentunenne prende forma, come lettera scarlatta, la ‘T’ di troia.

Ma a cosa è dovuta tutta questa aggressività femminile? Nella cultura occidentale esiste una questione dell’aggressività femminile che non riguarda solo alcune, ma un modo di essere di tutte le donne, radicato nell’inconscio collettivo. L’istinto all’aggressione serviva alla donna per difendersi e difendere il proprio spazio. Secondo la psicoterapista Marina Valcarenghi, si è creata nel tempo una omissione culturale tra violenza e autodifesa, rimossa dalla ‘mutazione degli istinti’ imposta dall’evoluzione della società che ha costruito lo stereotipo del femminile comunemente inteso come aggraziato. Quando poi si è ottenuta l’emancipazione nel secolo scorso, quell’aggressività è potuta tornare a galla e viene utilizzata adesso per delimitare il confine della propria identità. Per poter dire “Io non sono come loro”. In altre parole, odiamo altre donne perché odiamo noi stesse e le giudichiamo con gli stessi strumenti con cui mettiamo in croce noi per prime. Anziché aiutarci a elaborare le nostre emozioni, poi, la società in cui viviamo semplifica solamente i canali attraverso cui sfogare tutta la collera, proponendo spettacoli rozzi e agghiaccianti come il lungo elenco dei commenti rivolti a una madre nella tomba. 

La violenza genera altra violenza. Ma c’è ancora qualcosa di più beffardo e sottile, quasi impossibile da comprendere quando sono le donne a odiare altre donne. E no, non è solo un problema di ignoranza messa in luce dall’uso dei social. L’arretratezza culturale certo è humus per l’odio, ma si riverbera anche in contesti di livello. Key Ivey è la governatrice dell’Alabama e ha firmato una legge che impedisce alle donne di interrompere la gravidanza, anche nei casi di stupro e incesto, e punisce i medici che praticano l’aborto con 99 anni di carcere. Lo scorso marzo la Corte di Appello di Ancona ha assolto due uomini accusati di stupro: nella sentenza c’era scritto che la vittima aveva un aspetto mascolino e che difficilmente questo l’avrebbe resa attraente. I giudici di Corte erano tutte donne. 

Il maschilismo, dunque, ci appartiene più di quanto ogni adesione femminista possa confutare. La convinzione di essere soggette all’uomo, insomma, sembra essere dentro di noi a prescindere da ogni lotta culturale. In virtù di questo allora diventa ancora più doveroso combattere. A proposito: i fatti di Partinico, infelicemente coincidono con i giorni dedicati alle manifestazioni contro la violenza sulle donne. Tra gli alleati in questa battaglia culturale però, non figurano tutte insieme e unite le donne. Con queste premesse, ridurre la piaga della violenza sarà ancora più difficile. 

di Sofia D’Arrigo

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