Fake News Real People: lo stigma dell’immigrato, in Italia come negli USA

UNO SGUARDO SULL’ATTUALE COMUNICAZIONE MEDIATICA E POLITICA SUL TEMA MIGRATORIO, PER SOSTITUIRE AL SILENZIO IL RISVEGLIO DELLE COSCIENZE

Continua il percorso intrapreso dai ragazzi del gruppo Fake News Real People. Concluse le esperienze degli ultimi due mesi – che hanno visto l’organizzazione di un workshop sull’hate speech, la creazione di un giochi alla Casa del Parco dal titolo Ogni scelta è un viaggio e un confronto con i propri colleghi universitari – gli studenti di comunicazione hanno deciso di iniziare dicembre con un nuovo appuntamento. Se la lotta alla cattiva informazione e il tema migratorio si riconfermano ingredienti fondamentali della loro missione, a cambiare questa volta è la prospettiva. Martedì 3 dicembre, presso il Plesso Kennedy-D’Azeglio dell’Università di Parma, si è infatti tenuta la conferenza Migrazioni, Fake News e ‘Bufale’: Usa/Italia a confronto. L’interesse del gruppo è stato dunque indirizzato oltreoceano all’attuale amministrazione USA. Come testimone ed esperto della politica migratoria statunitense,  è intervenuto il professor Mohamed Arafa, docente dell’Indiana University che ha intrattenuto gli studenti attraverso una interview call in inglese. Il professore è impegnato in tematiche quali il diritto islamico, il terrorismo e le politiche statunitensi medio-orientali, diventando una voce internazionale in questa materia.

LA NARRATIVA MEDIATICA STATUNITENSE – Il professor Giancarlo Anello, docente di Intercultura e pluralismo istituzionale, ha interrogato il professor Arafa sulle modalità con cui i media USA si rapportano alla migrazione in Europa. Secondo il docente Arafa, la percezione americana vede nell’azione dei regimi dittatoriali le cause del fenomeno. Queste politiche, infatti, producono un’instabilità diffusa medio-orientale che coinvolge tanto la società quanto l’economia, traducendosi in una mancanza di beni di prima necessità per i popoli coinvolti. Stili di vita non troppo diversi dai nostri, quindi, ma imbruttiti dalla povertà e dalla precarietà. Lo stigma del migrante ha toccato anche un accademico quale Arafa che, pur non ricevendo attacchi diretti, è stato vittima di fenomeni imbarazzanti. Citando rapidamente  le special inspection, il professore ha raccontato di un episodio avvenuto durante un viaggio in autobus tra una città dell’Indiana e l’altra. In quell’occasione il conducente gli aveva rivolto qualche domanda e, sapendo che era di origine egiziana, gli ha chiesto se l’Egitto fosse un paese radicalizzato. Arafa gli ha quindi dovuto sfatare la convinzione dell’esistenza di interi paesi radicalizzati. Spesso gli stessi radicali sono quello che il professor Anello traduce con “la versione locale delle persone conservatrici”. 
Da qui la domanda di Viola Provenzano, membro del team Fake news real people, che – ricollegandosi all’episodio del giovane ambulante senegalese che aveva restituito a Parma un Rolex del valore di 30 mila euro – riflette sull’utilità di diffondere queste notizie per produrre l’immagine di “un buon straniero”La proposta è stata accolta positivamente ma non senza riserve. Benché, infatti, la costruzione di una narrazione virtuosa possa facilitare per alcuni il tema dell’immigrazione, il professor Arafa sostiene che non si possa prescindere da un impegno più attivo di questi nel rispetto delle leggi e nell’apertura a culture diverse dalla loro. L’America in tal senso è il paese che storicamente si è fatto emblema di questa pluralità di voci, ritenendo  il ‘sincretismo’ la chiave di volta che ha reso great l’America.

LA NOTIZIABILITÀ AI TEMPI DI TRUMP – Come spiegato in un articolo del Washington Post di Kerem Ozan Kalkan, accademico presso la Eastern Kentucky University, non solo in America l’odio verso i musulmani è maggiore di quello rivolto a molti altri gruppi (dai neri, ai latini, agli LGBT e agli atei), ma questo si è andato a intensificare tra i repubblicani segnando una profonda evoluzione tra narrativa della presidenza Bush e quella di Trump. Quest’ultima non nasconde il facile pregiudizio che associa ed estende il terrorismo di matrice islamica a tutti i musulmani. Ciò è ben visibile nel Travel ban, poi ribattezzato Muslim ban propio perché andava a negare l’accesso negli Stati Uniti a sette paesi arabi. Questo tipo di comunicazione, spiega Arafa, ha avviato una serie di dinamiche che hanno influenzato anche paesi come il Canada, l’Australia e l’intera Unione Europea. La costante in tutti questi casi era l’uso delle fake news, una mancata accuratezza nel riportare le notizie (quando non si scadeva addirittura in meccanismi d’informazioni create a tavolino) che associava un contesto radicale ai singoli cittadini.

Questa ‘emergenza terrorismo’ ha comportato diverse reazioni. Il professor Arafa porta come esempio il Dipartimento di Stato che, dal marzo dell’anno scorso, ha introdotto una nuova voce per coloro che richiedono un visto di soggiorno: l’id digitale. Questa manovra, che sta vedendo tutt’ora un’evoluzione nelle sue procedure,  dà diritto al monitoraggio dei profili dei social network, dell’e-mail e perfino dei numeri di telefono utilizzati negli ultimi 5 anni. Queste notizie hanno avuto eco a partire dalla fine del 2017, mentre continuano a passare in sordina le problematiche dei centri di detenzione. I media non le trattano, se non in episodi specifici come nel caso di eventi violenti. Una scelta che silenzia il dibattito pubblico, quindi politico, in merito alle sorti di molte famiglie separate all’arrivo negli USA.

LA LIBERA INFORMAZIONE: UN DIRITTO PRECARIO – La presidenza Trump ha visto un incremento esponenziale di gruppi di democratici e repubblicani che sfruttano la disinformazione per formare un ambiente politico più interessato a disseminare venti di conflitto, piuttosto che ricercare soluzioni condivisibili ad ambo le parti. Questa polarizzazione politica e sociale è cresciuta nei social network, e in misura minore nell’ambiente televisivo, a causa di un paio di fattori che riducono la capacità critica dei fruitori del contenuto: una bassa attenzione iniziale di ciò che si legge, seguita da un’altrettanto carente analisi. I social sono più efficaci della televisione perché creano l’illusione di una concreta partecipazione dei loro utenti nel commento alle notizie. Questo medium mette in forte relazione lettori e titoli dalle idee simili, creando di fatto un ambiente in cui manca l’elemento contraddittorio. Insomma, non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace: così ragionano gli algoritmi della maggior parte dei feed di notizie. In questo modo, si giunge alla formazione di casse di risonanza solo per quei messaggi condivisi. Lentamente, nel corso di questi anni, abbiamo assistito anche al passaggio dalle comunità online alle echo chambers, ovvero a spazi digitali nei quali l’insieme delle idee di un singolo viene ripetutamente confermato con quello del resto del gruppo.

Il professor Arafa propone un ulteriore modalità dell’attuale comunicazione mediatica. Questa verrebbe utilizzata per trasmettere indirettamente al pubblico informazioni esterne alle notizie. È questo il caso della procedura di impeachment in cui Trump è coinvolto. Un procedimento che i media fanno intendere essere troppo complesso e che quindi suggerisce una rimozione del Presidente dalla sua carica attraverso l’esito delle prossime elezioni. Tornando al dibattito sui rischi dei contenuti informativi digitali, un tema ancora irrisolto è la precisa formulazione di un interesse legato alla sicurezza nazionale e di come questo possa coesistere con il diritto alla privacy. Il primo viene oggi spesso usato per giustificare atti di censura verso l’opposizione politica o alle ONG.

FAKE NEWS REAL PEOPLE: CHI SONO – Fake news real people è un progetto portato avanti da un gruppo di ragazzi – studenti di Comunicazione dell’Università di Parma – impegnato nella lotta contro la diffusione di false notizie. È un progetto, spiegano i due membri del team Viola Provenzano e Marco Vitale , “nato dall’invito della professoressa Giulia Conti ad aderire alla challenge indetta da Facebook, che vede coinvolte 28 università in tutto il mondo e 3 in Europa, di cui una in Italia, ovvero l’Università di Parma”.

Questa challenge si propone, tuttavia, di coinvolgere quanta più gente possibile col fine di arginare la disinformazione che nel Web dilaga. Gli argomenti trattabili possono essere molteplici, purchè siano inerenti alla campagna anti odio che Facebook intende portare avanti. Nel caso specifico, i ragazzi dell’Università di Parma hanno deciso di trattare il fenomeno migratorio, essendo una realtà molto presente e dibattuta in Italia. Si tratta di una sorta di competizione tra università, che si svolge ogni 6 mesi e che vede giovani impegnati nella lotta contro le fake news. Questa campagna “nasce lo scorso 3 ottobre e termina oggi 3 dicembre”, ma l’intento dei ragazzi coinvolti è quello di continuarla, indipendentemente dal contesto universitario. Questo lasciano intendere le parole di Marco Vitale, alla fine dell’ultima conferenza: “L’obiettivo è sfruttare le nostre conoscenze per parlare ai nostri coetanei, sensibilizzarli e far comprendere loro l’importanza di sapersi informare. Le false notizie alterano la percezione della realtà e, nel caso specifico del tema immigrazione, allontanano noi italiani dagli stranieri che accogliamo e a cui spesso, senza una ragione valida, guardiamo con diffidenza. È gente che, come noi, ha sogni da realizzare e voglia di arrivare. Il nostro obiettivo è continuare autonomamente questa campagna anti-odio, portandola in giro per le scuole. Parlare ai più piccoli, per quanto arduo sia catturare la loro attenzione, è importante e necessario”.

Alla scadenza della challenge, continua l’intervistato, “Facebook selezionerà 3 università -quelle che avrà ritenuto migliori e che avranno ottenuto un maggiore riscontro sociale- le quali si presenteranno a Bruxelles dove, dinanzi ad una platea, presenteranno e racconteranno il proprio progetto”.

 

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