Verso la modifica della Convenzione di Dublino

LA PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE EUROPEA URSULA VON DER LEYEN HA ANNUNCIATO UNA NUOVA PROPOSTA PER SUPERARE LA CONVENZIONE DI DUBLINO CHE STABILISCE QUALI PAESI DEVONO FARSI CARICO DELLE RICHIESTE D'ASILO. SARÀ UN CAMBIAMENTO SOSTANZIALE O UNA MODIFICA PARZIALE?

 

Verso la modifica della Convenzione di Dublino

È stato durante il discorso sullo stato dell’Unione, pronunciato di fronte al Parlamento Europeo, che lo scorso 16 settembre la presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha annunciato l’intenzione dell’organo esecutivo di modificare l’attuale Regolamento di Dublino sull’immigrazione.

Nel farlo, la presidente della Commissione ha ricordato i valori di inclusione e solidarietà su cui è fondata l’Unione Europea e ha richiamato ogni Stato ai suoi doveri: “Voglio essere chiara, se facciamo un passo avanti mi aspetto che tutti gli Stati membri facciano lo stesso. L’immigrazione è una sfida europea e tutta l’Europa deve fare la sua parte”.

La Von Der Leyen ha poi rievocato le immagini degli incendi  che alcune settimane fa hanno devastato il campo profughi Moria sull’isola di Lesbo, per sottolineare l’esigenza di un approccio più “umano e umanitario” al tema dell’immigrazione. 

Pur non menzionandola esplicitamente, la Von Der Leyen ha dunque espresso la volontà di superare la Convenzione di Dublino, ovvero quel trattato europeo che regola in materia di gestione delle richieste d’asilo.

Prima di arrivare però al contenuto della nuova proposta presentata il 23 settembre in Commissione, facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire in cosa consiste il trattato.

La convenzione di Dublino in breve

Firmata nel 1990 a Dublino dai paesi dell’allora Comunità Europea ed entrata in vigore nel 1997, la Convenzione stabilisce quali paesi devono prendere in carico le domande di asilo politico. Tuttavia, i criteri che stabiliscono se un richiedente può avvalersi o meno di tale diritto cambiano da paese a paese.  La mancanza di uniformità giuridica ha dunque determinato il fallimento della Convenzione, nata per evitare conflittualità fra richieste d’asilo presentate a più paesi. Inoltre, secondo i tre principi della Convenzione è responsabile della richiesta d’asilo:

  • Lo stato dove risiedono legalmente i parenti del rifugiato;
  • Lo stato dove il rifugiato ha già ottenuto in passato un permesso di soggiorno;
  • In mancanza di adempimento di una delle due precedenti condizioni, è responsabile lo stato dove per primo è transitato il rifugiato. Si tratta del cosiddetto criterio del ‘primo ingresso’.

Quest’ultimo principio, in particolare, rappresenta un forte svantaggio per gli stati di primo ingresso – Spagna, Grecia, Italia – che infatti si ritrovano in prima linea nel fronteggiare l’emergenza migratoria.

In realtà, nelle sue intenzioni originarie, la Convenzione faceva affidamento – senza stabilirlo – a una spontanea intesa tra gli Stati membri, oltre che su dei flussi migratori esigui e regolari. Tuttavia, questi presupposti sono venuti meno con la grande crisi migratoria del 2013 scatenata dalle guerre civili in Libia e in Siria che hanno aggravato la già precaria situazione esistente. A farne le spese sono stati soprattutto i cittadini di questi paesi, costretti ad assumere lo status di migrante,  a vivere in condizioni critiche – se non drammatiche – in campi profughi e hotspot, privati di un riconoscimento giuridico.

In attesa della lenta elaborazione delle loro richieste d’asilo, il cui esito molto spesso è negativo, perché richiede valide documentazioni e attestazioni che i migranti difficilmente sono in grado di fornire. Anche per le istituzioni questi processi risultano lunghi ed economicamente dispendiosi. Per esempio, senza documentazione uno stato dovrebbe verificare il legame di parentela tra due persone attraverso il test del Dna. È molto facile, dunque, capire i problemi strutturali della normativa, incapace di rispondere alla realtà effettiva della situazione.

Oggi il criterio del ‘primo ingresso’ non è più lo strumento adatto per fronteggiare la crisi migratoria e chiede di essere superato. Un problema ad esso legato, infatti, è molti migranti rifiutano di farsi identificare nel paese di arrivo perché desiderosi di chiedere asilo negli stati più ricchi del centro e nord Europa. In questi casi il migrante finisce in un ‘vuoto normativo’ in cui non può ottenere un permesso lavorativo, né partecipare a progetti di inclusione. Tutto ciò ha saturato e rallentato le strutture d’accoglienza della Spagna, della Grecia, di Malta e ovviamente anche dell’Italia: paesi che infatti si sono ritrovati a ospitare tantissimi rifugiati che non volevano fornire le proprie generalità.

Negli anni si è detto tanto su questo trattato e sulla necessità di doverlo modificare. Anche il precedente Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, aveva ribadito l’esigenza di modifiche strutturali, ma il trattato è rimasto fino ad oggi pressoché intatto. Il professore di diritto dell’Unione Europea all’Università di Parma Marco Inglese ha spiegato che l’approccio tenuto dall’Unione fino ad ora in materia di immigrazione è stato dovuto principalmente a due motivazioni: «A partire dal 2004, il Presidente della Commissione è sempre stato espressione del Partito popolare europeo (Barroso, Juncker e Von der Leyen) e lo stesso Parlamento continua a presentare una maggioranza del PPE (Partito Popolare Europeo con una tendenza al centro-destra). Anche il Presidente del Consiglio europeo, sin dal 2009, è espressione dello stesso orientamento politico.

Si può quindi affermare che difetti e pregi della gestione dei flussi migratori siano ascrivibili da un lato a fortissime campagne nazionali che hanno instillato l’esigenza di ordine e sicurezza; dall’altro, al fatto che i Governi nazionali siano riusciti a influenzare profondamente il processo di decisione dell’UE, soprattutto in quelle materie altamente divisive come la gestione dei flussi migratori.

Ne è prova, ad esempio, il rafforzamento delle operazioni della guardia costiera europea tramite Frontex. A ciò si aggiunga anche una politica estera dell’Unione non sempre coerente con l’obiettivo di salvaguardare i diritti fondamentali, come avviene, ad esempio, nel caso dell’accordo con la Turchia (nel 2016 l’Europa ha finanziato la Turchia per diminuire il flusso dei migranti sulla rotta balcanica).

Tra i paesi più ostili in tema di immigrazione, spiccano quelli del blocco di Visegrad: Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. Un’ostilità che trova la sua raffigurazione perfetta nei muri di filo spinato costruiti ai confini ungheresi. Nonostante nel Consiglio europeo (l’organo composto dai capi di stato o di governo di ogni stato membro) in materie afferenti allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, non vi sia il potere di veto e  le decisioni vengono prese attraverso una maggioranza qualificata e non con l’unanimità, il professore Inglese ha spiegato che è comunque possibile per blocchi di paesi, anche ristretti, opporsi e rallentare le agende politiche in programma. questo è dovuto alla natura e struttura stessa dell’Unione europea: “Proprio perché l’Unione non è uno Stato, gli Stati membri possono ‘informalmente’ creare dei blocchi di potere che tendono ad avanzare nel processo di integrazione (il famoso asse franco-tedesco, sovente appoggiato anche dall’Italia) o, più di recente, rallentarlo su questioni strategiche (il gruppo di Visegrad). Anche qui, non c’è una soluzione predeterminata. Per esempio, quando nel 2015-2016 furono adottate le decisioni sul ricollocamento dei migranti, esse furono impugnate da alcuni Paesi del gruppo Visegrad di fronte alla Corte di giustizia, la quale, però, dichiarò infondato il ricorso. E’ possibile affermare che questi ricorsi siano stati introdotti proprio perché le decisioni sul ricollocamento non avevano avuto l’approvazione dei Paesi di Visegrad”.

Il piano Von Der Leyen cambia davvero le cose?

La proposta della Presidente presentata il 23 settembre in Commissione non è affatto un superamento della Convenzione di Dublino, semmai una revisione parziale. Il patto presentato è un piano pluriennale, da portare a termine entro il 2024, termine del mandato dell’attuale Commissione in carica.

Esso consiste innanzitutto nell’implementare e migliorare i controlli alle frontiere, velocizzando l’iter burocratico che permette di capire chi abbia o meno diritto all’asilo politico. In programma c’è anche il rafforzamento della collaborazione internazionale con i paesi africani e mediorientali di partenza e transito, per combattere il traffico illegale di migranti e migliorare i rimpatri.

Introdurrebbe poi un new solidarity mechanism. In caso di richiesta di soccorso da parte dei paesi alle prese con grandi pressioni migratorie alle Commissione europea, tutti i membri hanno l’obbligo di intervenire o accogliendo sul proprio territorio una quota di migranti, o contribuendo economicamente alle spese di rimpatrio. Dati i tanti tentativi di coinvolgimento falliti in passato, non è però chiaro come potrebbe essere rispettata questa obbligatorietà. 

Insomma, il nuovo patto presentato rafforza le frontiere e velocizza i rimpatri, ma non sembrerebbe mostrare quell’approccio ‘umano e umanitario’ invocato dalla Von Der Leyen. Non può essere questa la strada intrapresa da un’Europa che vuole essere garante di pace, libertà e di tutti i diritti fondamentali dell’uomo.

Pur sospendendo il giudizio sull’efficacia e sul buon proposito dietro alla proposta della Von der Leyen, in attesa di poter esaminare nel dettaglio gli atti legislativi, il professore Inglese sottolinea la positività di alcune misure che potrebbero facilitare l’ottenimento dell’asilo politico: “Il Patto pone l’accento, tra le altre cose, sul rafforzamento della cooperazione tra l’Unione e i Paesi di transito e partenza; potenzia una  procedura di pre-ingresso ma non supera integralmente il criterio del Paese di primo ingresso. Tuttavia, ad esso affianca alcuni elementi ulteriori, quali la valorizzazione del titolo di studio e dei legami familiari, per esempio qualora il migrante abbia famigliari in un altro stato membro”.

E l’Italia?

Il nostro paese, ci ha messo del suo, sia in positivo che in negativo. L’Italia è stata sicuramente in prima linea nell’affrontare l’emergenza, ma ha anche adottato diverse misure per ridurre gli arrivi e complicare l’iter burocratico delle richieste d’asilo.

Le prime restrizioni in tema di immigrazione da paesi extracomunitari si sono avute con la legge Bossi-Fini del 2002 che introdusse misure come l’obbligo delle impronte digitali, l’ottenimento del permesso di soggiorno soltanto ai possessori di un contratto di lavoro regolare, l’utilizzo delle navi della Marina per contrastare il traffico irregolare di migranti e l’inasprimento delle pene per i trafficanti di esseri umani.

Questo è stato uno dei punti più controversi perché ha coinvolto, con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, persone che invece hanno soltanto salvato delle vite. È stato il caso dell’equipaggio dei due pescherecci tunisini che salvarono la vita a 44 persone l’8 agosto del 2007 e che furono assolti soltanto 4 anni dopo e dopo 40 giorni di carcere; ma anche della capitana della Sea-Watch 3 Carola Rackete che, in seguito alla violazione di un posto di blocco, venne arrestata il 29 giugno 2019 con l’accusa di resistenza a navi da guerra e favoreggiamento all’immigrazione clandestina, per aver fatto sbarcare nel porto di Lampedusa 53 migranti salvati al largo delle coste libiche.

Nel tentativo di ridurre a monte il flusso di migranti, il 2 febbraio 2017 il governo italiano ha firmato un memorandum d’intesa con il governo libico di Fayez al Serraj. L’accordo ha rinnovato l’intesa già stipulata nel 2008 e nel 2012 con il precedente regime di Gheddafi per fornire alla Libia mezzi, addestramento e risorse per implementare i controlli ai confini del Niger e trattenere più a lungo i migranti nei centri di ‘accoglienza’. Questi centri sono in realtà veri e propri centri di detenzione, con un sistema di controllo violento in cui le torture sono frequenti e dove manca ogni sorta di standard igienico-sanitario. La Comunità internazionale e la stessa Unione Europea hanno chiesto più volte all’Italia di sospendere l’accordo che però lo scorso febbraio è stato prorogato per altri tre anni.

A complicare ulteriormente le cose ci hanno poi pensato il Decreto sicurezza  e il Decreto sicurezza bis, promossi dall’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini. Tra le misure più controverse che sono state introdotte con questi decreti  figurano: la revoca della protezione umanitaria (una delle forme di protezione insieme all’asilo politico e alla protezione sussidiaria) che durava due anni e dava accesso al lavoro, all’edilizia popolare e alle prestazioni sociali, a favore di alcuni permessi speciali della durata massima di un anno; il depotenziamento del Sistema per l’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati (Sprar) gestito dai comuni a favore dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), nei quali sono stati raddoppiati i giorni di possibile permanenza: da 90 a 180; la facoltà da parte del Ministro dell’Interno di «limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica».

Dopo tanto parlare sulla necessità di cambiarli, lo scorso 6 ottobre il Consiglio dei Ministri ha approvato delle loro modifiche. Si tratta di modifiche parziali e non sostanziali ma che rappresentano pur sempre un passo avanti, rispetto a prima. Sono stati riportati a massimo 90 i giorni di permanenza nei Cpr ed è stata reintrodotta la protezione umanitaria.

di Angelo Baldini

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