I Capannoni di Parma: storie di persone e di città. Una lezione dal passato al presente

Dall'edificazione negli anni Trenta da parte dei fascisti alla loro demolizione, in un rapporto fra storia e architettura: quando borghesi e popolani erano distanti negli stili di vita, ma anche urbanisticamente

Da sabato 12 febbraio fino al 25 aprile 2022 è aperta al pubblico la mostra “I Capannoni a Parma. Storie di persone e di città”, curata dal Centro studi movimenti e dall’Università di Parma con il contributo del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, della Regione Emilia-Romagna e del Comune di Parma nell’ambito delle attività di Parma Capitale della Cultura 2020+21.

La mostra ha inaugurato con due preview alla presenza dell’assessore alla Cultura del Comune di Parma Michele Guerra, di Paolo Giandebiaggi, architetto e docente di Disegno e rilievo dell’architettura all’università di Parma e di Margherita Becchetti ricercatrice del Centro studi movimenti.

A Palazzo del Governatore si racconta così uno spaccato della storia di Parma: la divisione fra borghesi e popolani che a lungo ha caratterizzato la città, sino alla costruzione dei Capannoni negli anni Trenta da parte del regime fascista. Al contempo la mostra verte su due questioni principali e assolutamente attuali: esistono ancora oggi i ‘Capannoni’? I poveri sono ancora esclusi dal centro? La marginalità è gestita o viene ancora semplicemente allontanata e nascosta?

Si ripercorre la storia dei Capannoni inserendola in quella della città prima e dopo la loro edificazione negli anni Trenta, per capire le ragioni che portarono regime fascista a costruirli, cosa essi divennero per le persone che vi abitarono e le difficoltà che le amministrazioni democratiche del dopoguerra incontrarono nell’abbatterli.

L’allestimento presso il Governatore è stata una scelta tutt’altro che casuale. Come sottolinea la ricercatrice Margherita Becchetti: “Il 28 ottobre 1935 questa sala (oggi Sala Mattioli) era stata chiamata la Sala della Rivoluzione, questo palazzo è diventato la sede del partito nazionalfascista e nell’androne è comparso un grosso basso rilievo in cui si rappresentava il fascio vittorio, il piccone e il nome di tutti i borghi che il fascismo aveva abbattuto in Oltretorrente. È in questo palazzo che il fascismo nel 1935 ha celebrato l’operazione urbanistica che ha dato vita ai capannoni, abitati fin da subito da persone che sono state espulse dalla città. Portare in questo palazzo queste storie aveva per noi un significato simbolico molto forte, questa mostra non poteva essere allestita altrove”.

Paolo Giandebiaggi, architetto e docente di Disegno e Rilievo dell’architettura all’Università di Parma, spiega che il focus della mostra è parlare di città e di persone. “Le città non sono solo gli edifici e le persone, quando nascono, si trovano in città già costruite da altri e ne ereditano non solo la cultura, ma anche le sensazioni e le storie. Abbiamo voluto raccontare questo intreccio fra le storie delle persone e le trasformazioni urbanistiche, un tema sicuramente molto attuale. Ogni volta che si fa un intervento sulla città, in qualunque parte questo accada, si interviene sulla città di tutti. Tutti ne abbiamo dei condizionamenti positivi o negativi”.

In chiave urbanistica, la ricerca condotta attraverso l’analisi e l’elaborazione di un amplissimo apparato storico-iconografico dall’Area della Rappresentazione del Dipartimento di Ingegneria e Architettura dell’Università di Parma (gruppo composto dai docenti Paolo Giandebiaggi, Chiara Vernizzi, Andrea Zerbi, Maria Evelina Melley, dai dottori di ricerca Andrea Maiocchi, Sandra Mikolajewska e Alessandra Gravante, e dall’arch. Virginia Villani) affronta quindi la vicenda dei Capannoni di Parma come una lezione da non dimenticare.

Oltre a una ricca sezione fotografica e documentaria riprodotta su grandi pannelli – ricostruita attraverso un’ampia ricerca condotta in archivi pubblici e collezioni private – in uno spazio della mostra è proiettato il video Capanòn di Roberto Azzali che, nei decenni passati, ha raccolto diverse e preziose testimonianze di persone che vissero nei Capannoni.

Una mostra sul passato e una riflessione sul presente

Ancora oggi, nel gergo parmigiano, viene utilizzata l’espressione “capannone” per indicare una persona rozza, un popolano che fuoriesce dai modi urbani. Molti usano questo termine, ma pochi sanno quale sia la sua origine.

“Che cosa vorremmo lasciare con questa mostra? Senz’altro uno spaccato di storia popolare. – spiega Becchetti – Noi viviamo in una città in cui celebriamo Maria Luigia, Giuseppe Verdi, in cui parliamo sempre della nostra classe dirigente e poco si parla delle persone che hanno vissuto quotidianamente la miseria. Questo studio nasce dall’idea di voler portare al centro del pensiero di tutti noi il fatto che la marginalità è esistita ed esiste ancora, non è passata. I Capannoni oggi non hanno più la forma a capanna, ma resta la marginalità. Ci sono persone che non hanno una casa, che vivono sotto i ponti o che hanno costantemente il timore di uno sfratto. L’augurio che ci facciamo è che la mostra faccia pensare a come può l’amministrazione locale gestire e rapportarsi alla marginalità”.

La storia dei Capannoni a Parma

In passato la città borghese e quella popolare erano separate dal torrente e da muraglioni di difesa costruiti lungo il suo corso. Il lato orientale era caratterizzato da palazzi nobiliari, piazze ampie e strade lastricate, vetrine sfarzose ed eleganti caffè, mentre, dall’altra parte del fiume, i borghi dell’Oltretorrente versavano in condizioni igieniche, sanitarie e sociali drammatiche.

Il torrente segnava un confine sociale e politico molto netto, a tal punto che l’una e l’altra parte cominciarono a dirsi nuova e vecchia: l’eleganza di Parma nuova era molto diversa dalla città vecchia dei borghi. La disuguaglianza veniva resa ancora più evidente dal fatto che queste due città fossero divise dalle sponde del fiume.

Due mondi opposti, due dialetti differenti, abitanti diversi e lontani nello stile di vita e nelle abitudini.

Parma vecchia

L’Oltretorrente era sorto al di là del fiume molti secoli dopo la fondazione romana ed era rimasto la parte povera e disgraziata della città. Il quartiere era diviso nei rioni dei crosén e dei franceschén che prendevano nome dalle rispettive strade principali di Santa Croce, intitolata a Massimo D’Azeglio nel 1882, e di San Francesco (via Nino Bixio). All’infuori delle strade principali, l’abitato aveva un aspetto tutt’altro che urbano, con molini, stalle, orti e letamai che spuntavano qua e là tra le case. Il popolo dell’Oltretorrente era composto principalmente da braccianti e lavoratori a giornata che vivevano di occupazioni stagionali o saltuarie, in condizioni economiche al limite della sopravvivenza, e che, nei mesi invernali, si trovavano senza lavoro. Oltre a loro, affollavano i borghi poveri artigiani, piccoli negozianti e un generico proletariato. La vita del quartiere si svolgeva per lo più fuori dalle case che, generalmente, erano ambienti umidi, malsani e sovraffollati. Gli abitanti vivevano nella strada, dove “si lavorava, si allattavano i figli, si cucinava, si filava la lana, si rammendavano abiti e stracci, si svolgevano le faccende domestiche”. Una vita all’aperto che rendeva il quartiere particolarmente vivace e rumoroso.

Parma nuova

Al contrario nella Parma nuova vivevano i signori e le signore ben vestiti che si muovevano a bordo di eleganti carrozze o delle prime automobili e passavano il tempo nei vari Circoli di Lettura, a teatro e nei caffè di lusso. Gli abitanti guardavano con diffidenza oltre i ponti dove regnava, invece, la miseria.

Tra il 1889 e il 1914 Giovanni Mariotti ricoprì più volte la carica di sindaco e iniziò a considerare l’opera di demolizione di isolati degradati un’occasione per risanare gli ambienti cittadini, rendendoli più decorosi. Così, nei primi anni del Novecento, l’amministrazione di Mariotti intervenne pesantemente sull’antica struttura urbana della città per cercare di porre rimedio ad alcuni gravi e urgenti bisogni sociali, come la mancanza di case operaie e di edifici scolastici. A lui si deve, ad esempio, la costruzione nel 1898 della prima scuola in Oltretorrente e la costruzione di nuove case destinate ai più poveri.

Negli anni Ottanta dell’Ottocento, l’Oltretorrente fu teatro di molte rivolte, tanto che i suoi abitanti si conquistarono presto la fama di popolo ribelle e sovversivo. Il popolo chiedeva per lo più “pane e lavoro” e protestava, soprattutto, per l’aggravarsi della disoccupazione di molti braccianti a causa della crisi economica. Il mito del popolo ribelle non tardò a radicarsi anche tra gli stessi abitanti dell’Oltretorrente che vantavano orgogliosamente il loro essere antagonisti e alternativi alla borghesia. Eventi come le Barricate antifasciste del 1922 nutrirono ulteriormente questo mito.

Il periodo fascista

Anche il governo Mussolini dovette confrontarsi con il problema della Parma vecchia. In seguito alle Barricate del 1922 si era affermata l’identità antifascista dell’Oltretorrente e i militari in camicia nera potevano entrare in alcuni borghi solo in gruppo e ben armati. Con le leggi eccezionali del 1925-1926, però, anche a Parma il movimento antifascista venne debellato e i dirigenti più attivi e conosciuti, come Guido Picelli, furono arrestati. Evidentemente la repressione non bastava, poiché il problema non erano pochi riottosi, ma un intero quartiere avverso al fascismo.

L’obiettivo del regime diventò presto quello di “bonificare l’Oltretorrente”, attraverso opere di risanamento. Al contempo si cercava di costruire un consenso generale e un controllo delle zone urbane più ostili. I borghi Cappucini, Carra, dei Salici, dei Minelli e San Basilide erano i principali da abbattere. Queste zone erano le più povere dell’Oltretorrente ed erano state teatro di tumulti e disordini. Il piano di risanamento prevedeva l’abolizione di oltre 300 case e la costruzione di strade e nuovi fabbricati.

Tra il 1928 e il 1929, le pratiche di esproprio degli edifici erano state in gran parte portate avanti, nonostante l’opposizione degli abitanti e nei due anni successivi iniziò l’abbattimento delle prime case. Alcune famiglie sfrattate vennero sistemate in alcuni caseggiati o nelle palazzine, altre avrebbero dovuto abbandonare la città e le persone più misere, infine, furono accolte in ricoveri comunali.

Tale risanamento aveva una natura edilizia, ma, soprattutto, politica e morale: Disperdere il sovversivo popolo dei borghi per averne il controllo”. Quello che aveva in mente il fascismo era l’idea di creare un’altra città, rompere l’idea delle due fazioni distinte e contrapposte. La dittatura necessitava di pace sociale e di appianare i conflitti interni che avrebbero potuto mettere in crisi il regime.

Nelle aree rase al suolo sorsero per lo più caseggiati ultrapopolari volutamente scomodi e al di fuori del centro urbano, i Capannoni appunto, destinati ad accogliere le famiglie sfrattate. Coerentemente al progetto di rendere la città un unico corpo senza divisioni, in Parma nuova vennero trasferiti uffici e servizi per le classi che prima abitavano l’Oltretorrente.

Per gli abitanti dei borghi lo sventramento dell’Oltretorrente fu una ferita difficile da rimarginare, mentre per i fascisti e per i borghesi rappresentò una vera e propria conquista, celebrata dal “piccone risanatore”: un’opera che doveva celebrare l’abbattimento dei borghi.

Quelli che dovevano essere alloggi temporanei ben presto divennero definitivi. Gli ultimi Capannoni vennero demoliti degli anni ’70 e negli anni ’80 vennero edificati i Peep, le case popolari, di via Sidoli. Ma ben presto anche quel concetto di destinazione edilizia esclusivamente popolare venne superata in un tentativo di rendere Parma una città più equa e solidale. Quello che resta da questa importante storia della città è tuttavia una importante lezione, per non commettere più l’errore di strategie discriminatorie e marginalizzazione delle povertà.

Informazioni utili

Dal 13 febbraio al 25 aprile – Palazzo del Governatore, piazza Garibaldi, Parma

‘I Capannoni a Parma. Storie di persone e di città’ a cura dal Centro studi movimenti e dall’Università di Parma (Area della Rappresentazione, Unità di Architettura, Dipartimento di Ingegneria e Architettura) con il contributo del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, della Regione Emilia-Romagna e del Comune di Parma nell’ambito delle attività di Parma Capitale della Cultura 2020+21.

L’esposizione è aperta dal martedì al venerdì dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 19, e il sabato e la domenica dalle 9 alle 19 con orario continuato. L’accesso è libero e gratuito, ma naturalmente contingentato nel rispetto delle norme anti-Covid.

Su richiesta, si organizzano visite guidate per gruppi il sabato mattina (ore 10.30) e pomeriggio (ore 16) al costo di 7€ a persona. Le visite guidate si attivano solo se è raggiunto un numero minimo di 20 persone. Per info e prenotazioni occorre scrivere a centrostudimovimenti@gmail.com

di Laura Ruggiero

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