Francesca Mannocchi a Parma porta la testimonianza diretta di chi vive la guerra

La giornalista inviata di guerra e scrittrice è stata ospite della rassegna Caleidoscopio. Vecchio continente, nuovo scenario a Palazzo del Governatore: "Dovremmo metterci nei panni altrui, cercando di capire le loro storie molto lontane dalle nostre, e se è possibile aiutarli".

Venerdì 24 marzo, presso Palazzo del Governatore di Parma, si è tenuto il secondo incontro della rassegna Caleidoscopio. Vecchio continente, nuovo scenario, promosso dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Parma. Protagonista dell’evento è stata Francesca Mannocchi, giornalista e scrittrice, in dialogo con Giovanna Pavesi, giornalista di Parma che ha ottenuto il premio storico del Comune per il giornalismo femminile ‘Con gli occhi di una donna’.

L’obiettivo di questa rassegna è offrire lo sguardo e condividere le testimonianze dei molti inviati che documentano ciò che accade all’estero e durante le guerre, al fine di avvicinarci ai nuovi scenari del vecchio Continente.

Uno sguardo a 360° sulla guerra

Francesca Mannocchi e Giovanna Pavesi

Mannocchi si occupa di conflitti, fenomeni migratori e crisi umanitaria, portando la sua testimonianza direttamente dal fronte e facendolo con professionalità e precisione tale da essere una dei pochi reporter italiani in grado di entrare nel vivo dei fatti, ma soprattutto, nella dimensione umana della guerra.

L’assessora alle Pari opportunità e Servizi educativi, Caterina Bonetti, nel presentare l’incontro ha infatti ringraziato la giornalista per il suo lavoro e sottolineato come offra “un contributo sul conflitto ucraino che sta investendo, così vicino a noi, civili e città e di cui, col passare del tempo, forse sfuggono atrocità ed equilibri”.

L’incontro ricorda l’ultimo libro di Mannocchi, Lo sguardo oltre il confine. Dall’Ucraina all’Afghanistan, i conflitti di oggi raccontati ai ragazzi, uscito nel 2022: un testo pensato per gli adolescenti, con l’intento di informare e far capire quanto anche i paesi distanti geograficamente non lo siano poi così tanto. Introduce così nelle nostre case quello che succede attorno a noi, nelle regioni di Iraq, Libano, Afghanistan, Libia, Siria, fino all’Ucraina. Mostra la vita di molti giovani, a partire da episodi di povertà fino ad attacchi terroristici. Una lezione di vita, perché quando si capisce il passato, forse si è in grado di agire correttamente nel presente per un futuro migliore.

Una caratteristica della giornalista è sicuramente “lo stile rigoroso che utilizza, ma soprattutto un grande rispetto dell’oggetto che viene raccontato e degli interlocutori”, spiega Pavesi. In tutte le storie che riporta, cerca sempre di farsi da parte, perché ritiene che “sia di fondamentale importanza ascoltare le parole altrui, in quanto la voce è unica, così come le giuste pause e silenzi devono essere rispettati. Se modifichiamo una voce è come se stessimo alterando la testimonianza di una persona” spiega Mannocchi, ed è esattamente quello che fa Svjatlana Aleksievič, giornalista e scrittrice bielorussa, che nel 2015 ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura, per “la sua scrittura polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo”. Aleksievič ha pubblicato nel 2017 La guerra non ha un volto di donna, dove affronta la condizione di oscurità dell’essere umano, che si manifesta durante un conflitto: “Posso raccontare come ho combattuto e sparato ma raccontare quanto e come ho pianto proprio non posso, quello resterà un non detto. […] So solo una cosa, che in guerra l’uomo si trasforma in un essere spaventoso e oscuro”. Anche Aleksievič, un po’ come Mannocchi, ha dato voce a molte interlocutrici tra i diciotto e i diciannove anni che, come volontarie, sono accorse al fronte per difendere la patria e i loro ideali. Sempre nel 2017, pubblica infatti un altro libro, Gli ultimi testimoni, in cui chiede agli interlocutori di raccontare la loro quotidianità durante gli anni di guerra, con una doppia immedesimazione: ossia utilizzare la voce di quando erano ragazzi.

Mannochi durante l’incontro a Parma si confida al pubblico ricordando come in “un qualsiasi contesto di guerra, indipendentemente che sia in Ucraina o in un altro paese, il conflitto non finisce mai quando si chiede di cessare il fuoco, ma solo se vengono stabili dei principi globali che devono per forza essere rispettati, nero su bianco. È importante anche avere la consapevolezza che si stia negoziando con dei criminali”. Inoltre la giornalista ricorda le difficoltà dell’inviato di guerra: “Quasi sempre deve essere accompagnato da un fixer, che è molto più di un interprete linguistico”. Si tratta infatti di una persona che vive e lavora in quel luogo ed è in grado di fare da ‘risolutore’. “Il fixer è di estrema importanza perché è un ponte linguistico ma anche un collegamento con la burocrazia di quel paese. Banalmente, per richiedere dei permessi giornalistici, ma anche semplicemente per capire come affittare una macchina, dove mangiare e quali strade percorrere per evitare di camminare sulle bombe. Quanti giornalisti sono morti perché hanno deciso di non ascoltare le indicazioni del fixer? Tanti”.

Mannocchi ricorda anche un episodio di grande umanità: in uno dei suoi viaggi aveva visto un ragazzo vestito da soldato e idi fronte a una domanda che lei gli aveva posto lui le ha risposto “non guardarmi così, non sono un soldato”. Lui aveva poi alzato l’uniforme e le aveva mostrato il tatuaggio di un flauto, era infatti un falegname. Subito dopo si era tolto l’elmetto e aveva videochiamato i figli, dicendogli “ora papà vi deve salutare, perché deve andare a lavorare”. In quel momento, racconta Mannocchi, “il suo lavoro era sotto le bombe, uscire dal rifugio in cui ci trovavamo, prendere la macchina per recuperare le munizioni, portandole alle prime linee di fanteria”. Quando Mannocchi gli ha chiesto cosa fosse per lui il futuro e il passato, lui ha risposto “al passato non ci pensi perché non lo puoi cambiare e non ci puoi tornare, al futuro non ci pensi perché è anche tra dieci minuti, è dove mi nascondo se cade un missile sopra la mia testa”. Prima che lei andasse via, lui le ha regalato uno strumento che aveva costruito, molto simile all’armonica. Mannocchi sottolinea che “può sembrare un gesto di poco conto, ma in una trincea ci sono nove soldati, un bicchiere per tutti, perché così non si spreca l’acqua per lavare nove bicchieri, e tutto ha un ordine di risparmio, e quella era l’unica cosa che si era portato da casa sua, e l’ha data a me, perché a un certo punto non c’è stato più il bisogno di dirsi certe cose”.

Il nostro ruolo nella politica migratoria: attivi o passivi?

Esistono profughi di serie A e serie B? Secondo Mannocchi assolutamente sì, del resto, “ce lo dicono i numeri, non è un segreto. Siamo portati ad accogliere più volentieri chi ci somiglia, chi magari ha una cultura simile alla nostra. La distanza di un paese può essere per molti un limite, o una motivazione al fine di avere dei pregiudizi su chi ci chiede aiuto e accoglienza. L’Europa potrebbe ospitare 5 milioni di persone in pochi mesi, se solo lo volesse. Lo abbiamo visto con l’accoglienza dei profughi ucraini. È necessario lavorare su questo aspetto, e anche sul tema del razzismo, che è inevitabilmente collegato”.

Secondo l’OIM, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, dal 2014 a oggi nel Mar Mediterraneo sono morti o sono andati dispersi 26.089 migranti. L’anno con più decessi e dispersi è stato il 2016, con oltre 5.100, mentre l’anno che ha registrato un numero inferiore è stato il 2020 con 1.450. Per ora, nel 2023 si parla di oltre 330 morti e dispersi.

Morti e dispersi nel Mediterraneo tra il 2014 e il 6 marzo 2023 Fonte: Oim

La guerra è un evento autentico per la giornalista, è in grado di tirare fuori “la purezza nel bene e nel male. Durante un conflitto, la natura umana ci spinge a condividere qualsiasi cosa, che sia cibo o altro”.

Un’altra particolarità di Mannocchi è tornare più volte nello stesso luogo, al fine di capirlo meglio: “Ogni viaggio è transitorio, quindi non è possibile coglierne subito ogni singolo dettaglio. Dovremmo metterci nei panni altrui, cercando di capire le loro storie molto lontane dalle nostre, e se è possibile aiutarli”.

“E’ necessario andare sul posto perché il livello dell’opinione pubblica, soprattutto dopo il Covid, ha raggiunto livelli distopici. – conclude Mannocchi – Realtà e testimonianza non battono più un’opinione pubblica sconnessa”. Pare assurdo come si sia “potuto pensare che i morti di Bucha fossero stati messi dagli ucraini. Io c’ero, ho camminato in mezzo a quei corpi senza vita, ma la mia testimonianza per alcuni non ha valore rispetto all’opinione di alcuni che sul posto non ci sono mai stati”. Si è arrivati a “pensare che il mandato di cattura verso Putin che, tra l’altro, ha deportato 14.000 ragazzi, sia una misura esagerata. Per mesi mi sono sottratta al dibattito, ora è il momento di ritornare”.

Mannocchi ha poi salutato il pubblico del Governatore promettendo di tornare ancora a Parma. Prima però raggiungerà il Bangladesh per un reportage e poi affronterà di nuovo il viaggio che la riporterà in Ucraina.

di Patricia Iori

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