Dune, atto secondo: dentro Arrakis

A due anni dall’uscita del primo film sul capolavoro di Frank Herbert, Denis Villeneuve torna con il secondo atto di questa epopea. Ancora una volta l’anima della storia trova il proprio eco nella meravigliosa colonna sonora realizzata per l’occasione dal maestro Hans Zimmer.

Due anni fa la fine del film coincideva con l’inizio del viaggio di Paul e Jessica tra le dune di Arrakis, unici superstiti al massacro dell’antica casata degli Atreides ordito dagli Harkonnen. Ora, il secondo atto della storia riprende da lì: la profezia della venuta del Lisan al Gaib si sta compiendo, il giovane duca è pronto per affrontare il suo destino e diventare il Mahdi? 

Una storia fatta di contrasti e dicotomie, il compiersi di un destino

Sabbia a perdita d’occhio.

Sembra un oceano che brilla al tramonto e affascina con i suoi colori cangianti.

Sabbia, granelli che si insinuano dappertutto: siamo dentro Arrakis, al fianco di Paul e Jessica che muovono i primi passi in un disegno molto più grande di loro, mentre dietro di loro incalzano gli Harkonnen.

Se il primo film è un preambolo che permette allo spettatore di scoprire l’atmosfera herbertiana, in questa seconda parte dell’epopea il pubblico è completamente immerso in Arrakis: ne è sopraffatto, schiacciato, ipnotizzato. La sabbia non è solo sullo schermo, è dentro di noi. 

Qui, in questo frangente, la pace è ormai un lontano ricordo. 

È il momento della guerra.

L’ora in cui vengono decise le sorti non solo di Paul, ma dei Fremen e di Arrakis stesso. 

Ciò che viene presentato sullo schermo è una danza, non solo rappresentata dal passo sinuoso dei Fremen sulla sabbia, ma anche dall’alternarsi di due storie parallele che, con luci e colori, si incontrano: è ciò che avviene quando le atmosfere di Arrakis, con i loro colori caldi, si scontrano e fanno a pugni con l’atmosfera fredda e spietata (in bianco e nero) di Gedi Primo, il pianeta degli Harkonnen. Questi due poli si alternano sullo schermo con forti contrasti; un dualismo potente non solo dato dalla storia, ma anche dalla fotografia e dalla regia impeccabile di Denis Villeneuve. Ancora una volta il regista canadese ha saputo ricreare quel meraviglioso mondo ideato da Frank Herbert e già presentato nel film del 2021 (ne abbiamo parlato qui)

Ancora una volta il film si riempie, sempre in linea perfetta con il romanzo degli anni Sessanta, di simbolismo e di richiami alla cultura e religione araba.

fonte: Everyeye Cinema

Quella di Paul Atreides (Timotheè Chalamet) è una storia di accoglienza e restituzione. Il ragazzo, infatti, diventando il Lisan-al-Gaib, accoglie su di sé la profezia, rendendolo il suo destino. Accogliendo questo fato, allo stesso tempo, restituisce al popolo Fremen la sua identità. Lo fa ridando ad Arrakis il proprio nome (“Arrakis una volta era conosciuto con un altro nome… Dune”), imparando a cavalcare i vermi e immergendosi nel mare di sabbia di cui è fatto il pianeta. E ancora, fa tutto ciò passando attraverso lo strumento più potente mai ideato dall’umano: la religione. “Da’ ad un popolo qualcosa in cui credere e soggiogherai quel popolo (…) la religione rende schiavi”, è ciò che dice Chani (Zendaya) al giovane Atreides. 

La religione è uno strumento politico che asserva le masse e le rende schiave, ma è solo questo? 

La principessa Irulan (Florence Pugh) la presenta come uno strumento da non sottovalutare, perché è proprio grazie alla fede di un popolo che quest’ultimo ritroverà la sua forza, sempre; anche nei momenti più bui.

Ed è ciò che succede su Arrakis; la fede nella venuta di un messia fa sperare i Fremen nella loro liberazione. Essa è la forza che unisce i cuori, le anime e le menti; è ciò che lo rende vivo e che lo fa lottare. Rimane la speranza quando essa sembra non esserci più. E questa forza, una volta incanalata, diventa irrefrenabile. 

È una forza che nella sua unione, potrebbe dividere. Una potenza che può distruggere, anche se stessa.

È forza e debolezza: allo stesso tempo temuta e osannata.

Ed è anche con questa dicotomia che Paul deve fare i conti prima di diventare il Mahdi. Ancora un elemento che divide ma che, prima della divisione, crea unione contro un nemico comune. Nonostante il pensiero di Chani, quindi, la religione rimane, di fatto, la via più forte per permettere a Paul di ascendere, divenire il capo dei Fremen e guidarli verso la libertà.

Nel mare di sabbia rimane sempre qualche sassolino scomodo

Inutile dire che Denis Villeneuve ha realizzato un capolavoro, in cui tecnica registica e cast creano un’opera che difficilmente non rimarrà nell’immaginario collettivo.

Nonostante questo, tuttavia, rimangono delle piccolezze, che nel mare di Dune si perdono come granelli di sabbia.

Se il primo capitolo, come si è detto all’inizio, è fatto di riflessione e lo stesso regista sembra prendere tempo per permettere allo spettatore di entrare nell’universo herbertiano, ciò viene meno nel secondo capitolo. Quest’ultimo accelera, per arrivare al succo della storia, allo scontro tra Fremen e Harkonnen, tagliando alcuni dettagli che, per chi ha letto il libro, paiono delle incongruenze. 

fonte: wikipedia

Alcuni personaggi non sono presentati o cambiati per ovvi motivi di trama (come Lady Fenring che diventa una Bene Gesserit, nonostante nel libro sia una Mentat e abbia un ruolo diverso nel romanzo); oppure il tempo in cui è ambientato lo scontro viene ad essere fatto coincidere con un periodo più vicino alla caduta del duca Leto; per non parlare del fatto che Lady Jessica (ai tempi della guerra) abbia già dato alla luce Alia (sorella di Paul qui interpretata da Anya Taylor Joy, che compare in stile Chani/Zendaya quasi alla fine del film). 

Anche se il dettaglio più grande e incongruente è il personaggio di Stilgar. Ormai diventato un meme, nel libro egli è il leader del suo gruppo di Fremen; è un uomo attento al benessere del suo popolo e solo in minima parte è un fanatico religioso. Stilgar è molto più di ciò che viene presentato nel film e la sua fede non lo ha mai accecato così come sembra nella pellicola. 

Nonostante queste minuzie, il cast si distingue per bravura e messa in scena; in particolare Austin Butler ricrea un perfetto Feith Rautha pazzo e assetato di sangue, forse reso ancora più inquietante dal trucco e parrucco e dai forti contrasti presenti su Gedi Primo. Ancora una performance impeccabile per Timotheè Chalamet e Zendaya (finalmente qui partecipe della storia); meravigliosa anche Rebecca Ferguson che rimane dietro le quinte e, seguendo le orme delle Bene Gesserit, rimane il burattinaio che tira i fili di Paul. Anche se Stilgar è molto più che un semplice fanatico, Javier Bardem non pecca nella sua performance, così come anche Stellan Skårsgard nei panni di Vladimir Harkonnen rimane una presenza ingombrante (in tutti i sensi) e temuta. 

In conclusione, il secondo atto di Dune, rimane un film complesso, in cui forti dualismi si intrecciano costruendo un’epopea unica e monolitica, ricca di riflessioni non solo sull’umano, ma anche sul ruolo del conflitto. 

Dune rimane un pensiero sulle atrocità della guerra e sui complotti che troppo spesso vengono ad inserirsi, come una matrioska, all’interno di altri piani. 

Sono proprio queste ultime parole (“piani dentro altri piani”), pronunciate da Lady Fenring/Lea Seydoux, che alla fine potrebbero essere la sintesi del gioco politico che viene presentato da Frank Herbert in questo primo capitolo della saga di Dune.

crediti immagine iniziale: Wired Italia

di Erika V. Lanthaler

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