Quando l’immigrato era di Parma: “Si vergognavano a dire cosa subivano”

MA CI FU CHI FECE SUCCESSO E DETTO' LE CONDIZIONI...AI BEATLES!

emigrazione“Sulla nave c’erano delle lenzuola grandissime, mi raccontava mia nonna”. Corrado Truffelli, presidente del Centro Studi Cardinale Casoli, è anche  nipote di emigrati della Valtaro. Quelle che sua nonna chiamava lenzuola erano le vele di una nave che dall’Europa l’avrebbe condotta a New York. E come lei tanti altri, diretti verso gli Stati Uniti o l’America Latina. “Dei diversi anni che passarono a New York so solo che mio nonno lavorava in una manifattura di tabacchi, non si parlava volentieri degli anni vissuti lontano da casa”. Si partiva con la speranza di una vita migliore, o più semplicemente perché si aveva fame, e spesso le illusioni e i sogni che accompagnavano questa speranza venivano infranti. Così si tornava in patria a fare lo stesso lavoro che si era lasciato, cercando di racimolare quel che si poteva per sopravvivere. In alcuni casi, però, quel lavoro non c’era e molti tornavano. “Che razza di coraggio avevano.”

QUANTI PARMIGIANI ALL’ESTERO OGGI? – Ad oggi sono 18 mila i parmensi che risiedono oltrefrontiera. Secondo i dati Aire, l’associazione italiana residenti all’estero, rappresentano meno dell’1% del totale nazionale ma costituiscono ben il 16% su base regionale. Il maggior numero, oltre il 36%, abita in Gran Bretagna, in particolar modo una grossa percentuale di bardigiani risiedono in Galles. Seguono Argentina, Francia, Svizzera e Stati Uniti. Le notizie dei parmensi che emigravano risalgono fino al 1400. Tuttavia, solamente con l’unificazione, grazie al raggiungimento dell’unità linguistica, l’avvio del processo di scolarizzazione e la nascita di una burocrazia nazionale, si hanno dati concreti sui movimenti migratori che riguardano soprattutto la catena appenninica della provincia parmense. Dati che vanno comunque presi con le pinze perché la gran parte dell’emigrazione avveniva clandestinamente.

DAGLI APPENNINI ALLE ANDE – “Partivano in nome di una speranza – afferma Corrado Truffelli  – volevano fare soldi ma molti speravano poi di ritornare. Di questi solo un 50% è poi, effettivamente, tornato in patria”. Erano per lo più girovaghi, segantini, venditori d’inchiostro, lavoratori a cottimo e vucumprà con sacco in spalla. Poi c’era una particolare categoria: mendicanti che giravano l’Europa accompagnati da animali esotici, improvvisando spettacoli per sopravvivere.
“ Non facevano le traversate dell’Atlantico con i gommoni – racconta Truffelli – ma le navi erano comunque dei gusci di noce. La paura delle epidemie e di malfunzionamenti delle navi erano all’ordine del giorno. Chi si scandalizza oggi, semplicemente non sa”.

“Noi oggi diciamo che gli immigrati ci portano via il lavoro – continua -: lo dicevano anche ai nostri 100 anni fa”. È esemplificativo quello che è accaduto nel comune francese di Aigues-Mortes, nell’Agosto del 1893: un’insurrezione da parte dei lavoratori francesi causò la morte di alcuni lavoratori immigrati italiani. I primi accusavano i secondi di ‘rubare’ il lavoro nelle saline, accontentandosi di un salario inferiore. Spesso storie come queste sono poco conosciute: “Gli immigrati tornati in patria si vergognavano a raccontare queste esperienze. Non c’è nulla di cui vergognarsi. Hanno avuto tanto coraggio!” Gli emigrati del territorio parmense provenivano principalmente dalle zone montanare della Val del Taro e del Ceno e viaggiavano in gruppi di villaggi: “Come fanno gli Africani oggi, i nostri facevano la stessa cosa”. Ciò consentiva che anche gli analfabeti riuscissero ad arrivare in America grazie alla cooperazione tra cittadini. Un senso di solidarietà e di appartenenza che resiste tutt’oggi tra gli immigrati di terza generazione. Una testimonianza è rappresentata dalla ‘Valtarese Foundation‘ di New York nata ufficialmente nel 1991 ma che accoglie una tradizione che risale al primo 900.

DOPO LA SECONDA GUERRA MONDIALE –  Una seconda ondata migratoria particolarmente intensa si è avuta dopo la Seconda Guerra Mondiale ed durata sino alla metà degli anni ’70.  Ad attirare maggiormente gli abitanti delle campagne non è stato l’estero ma il Capoluogo e le zone costiere. I dati dell’Emilia Romagna dicono che gran parte dei migranti che si spostarono all’estero andavano verso Germania e Belgio, tuttavia la provincia di Parma è caratterizzata da una specificità diversa. Infatti le principali mete sono state Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia, ricettiva anche nel ventennio fascista. Il flusso migratorio del dopoguerra si è modificato sulla base dei cambiamenti economico-sociali che hanno attraversato l’Italia del boom economico. Lo sviluppo delle industrie, sia statali che private, ha prodotto il fenomeno dell’inurbamento che ha portato molte persone ad abbandonare le campagne per cercare lavoro in città: “Nonostante i terrazzamenti dei crinali montanari la produzione agricola non era sufficiente a sfamare la gente. Oggi ci lamentiamo che gli immigrati portano la criminalità qui in Italia, dimenticandoci che noi abbiamo portato la mafia a New York”, afferma Truffelli. Questa è una delle caratteristiche dell’ondata migratoria postunitaria che ha contribuito a creare lo stereotipo dell’italiano come criminale, spaghetti e mandolino e che molto spesso ha  accompagnato i migranti nei loro spostamenti lungo l’arco di tutto il Novecento.
Un’altra caratteristica che ha contraddistinto questa nuova ondata è la migrazione al femminile: “Spesso le donne per sfuggire dal controllo sociale dei Paesi si muovevano per lo più verso la Svizzera”. Lavoravano stagionalmente e spesso, in controtendenza, erano proprio loro il punto di partenza della catena migratoria. Questo processo tende ad esaurirsi verso la metà degli anni ’70 quando si verifica un’inversione di rotta. Infatti a partire dagli anni ’80 il territorio parmense diventa meta di immigrazione, un flusso che ha raggiunto la sua piena evoluzione oggi.

jjj)IL CASO BORGOTARO – “Dai primi anni dell’Ottocento a migliaia lasciarono questa loro terra spinti dal bisogno o da spirito d’intrapresa per raggiungere tutti i continenti. Con volontà indomita e gravi sacrifici diedero il meglio di sè mettendo a disposizione d’altri popoli la loro forza,la loro tenacia di MONTANARI.” Questa frase incisa su una targa in rame posta sotto il Portico del Palazzo Comunale di Borgo val di Taro è stata scritta nel 1998 da Giacomo Bernardi, presidente dell’Associazione ricerche storiche valtaresi ‘Antonio Emmanueli’, in occasione della conferenza sull’emigrazione.

“Un tempo -spiega Bernardi- la terra povera non era sufficiente per sfamare l’intera popolazione che per nutrirsi ricorreva alla farina di castagne, al pane e alla polenta. Bastava poi una gelata o la morte di una mucca per mandare in disgrazia una famiglia.” Inoltre, intorno al 1883, vennero completati i lavori al tratto ferroviario Parma – La Spezia, che aumentarono la disoccupazione e che favorirono l’importazione di prodotti a basso costo, che con la loro concorrenza aggravavano ulteriormente l’economia locale.
“Ecco che fra il 1800 e i primi del 1900 i primi emigrati partirono per cercare lavoro, qualsiasi lavoro, verso terre a loro sconosciute. Fu un’emigrazione povera: quelli che partivano non sapevano fare nessun mestiere e arrivati a destinazione prendevano ciò che trovavano, lavori umili e faticosi.”
Bernardi riporta le testimonianze di borgotaresi partiti per l’estero: “In tre condividevano un solo letto e avevano tutti più di un lavoro. Mentre gli inglesi guadagnavano e spendevano i loro risparmi nel vizio e nel lazzo, gli emigrati spedivano il denaro in patria e quel poco che rimaneva lo usavano per mangiare.”
Anche qui nel dopoguerra il fenomeno dell’emigrazione scoppiò di nuovo: “Prima di partire molti montanari andavano all’hotel Appennino a farsi fare un falso certificato, che li designava ‘cuochi provetti’, anche se in realtà non avevano alcuna esperienza ai fornelli. In Inghilterra però la cucina non era delle migliori e anche quel poco che si sapeva fare era molto gradito.”

Ci fu anche chi fece successo: “Alberto Bonici, figlio di un emigrato borgotarese che era andato in Scozia per fare il gelataio, iniziò ad organizzare concerti, diventando agli inizi degli anni sessanta il più importante ‘pop music promoter’ della Scozia e aprendo una sala da ballo, la ‘Two Red Shoes’. Un giorno un gruppo musicale allora semi-sconosciuto ma promettente, prese accordi con Alberto per organizzare dei loro concerti e da allora tutte le volte che quel gruppo voleva suonare in Scozia, doveva farlo secondo le condizioni del borgotarese. Quel gruppo si chiamava Beatles.”

 

di Giulia Campisi, Marta Costantini, Chiara Cammelli

 

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