(In)Giustizia e omosessualità: la condizione transgender nelle carceri

A REGGIO EMILIA IN ARRIVO UNA SEZIONE AD HOC E CORSI DI FORMAZIONE SUL TEMA

Immagina di avere un corpo da donna ma con i documenti che dicono che sei un maschio. Immagina, quindi, di essere trasferito in una sezione maschile di un carcere. Immagina poi di doverti spogliare in mezzo ad altri uomini; essere un uomo bloccato in un corpo femminile quando si tratta di farsi una doccia, di cambiarsi i vestiti, o di dormire accanto ad altri uomini. Questo è quanto accade quotidianamente alla popolazione omosessuale e transessuale detenuta nelle carceri italiane. Una problematica complessa che riguarda non soltanto i diritti alla sessualità, ma anche relativamente alla funzione stessa della detenzione carceraria.

CARTA CANTA. E CONTA – Quando si parla di detenuti e detenute e di diritti LGBTQ la questione in Italia è risolta con troppa semplicità, inserendo il detenuto nella sezione di sesso corrispondente a ciò che è scritto nei documenti d’identità. “Ufficialmente, all’interno del carcere non esiste omosessuale o trans; non esiste la sessualità – spiega Alberto Nicolini, presidente di Arcigay Gioconda di Reggio Emilia -. L’istituzione carceraria porta a vedere i detenuti solo per cognome; così facendo però vengono ridotti numerosi bisogni delle persone”.  Un problema evidente per una persona transgender, al momento dell’identificazione all’ingresso del carcere, poiché il personale penitenziario non sa come comportarsi nei suoi confronti. “Io sono una guardia e arriva una trans, documenti maschili e corpo femminile: come mi comporto? Chi la perquisisce, un maschio o una femmina? Qual è il modo per non offendere questa persona e usare il linguaggio consono? Sono situazioni pratiche e concrete che mostrano la forte mancanza di formazione e preparazione per assistenti sociali e operatori carcerari sul tema”, analizza Nicolini. “Non sanno come gestire le persone  – spiega Rosario, transessuale di 50 anni oggi uomo, membro dell’Associazione Ottavo Colore di Parma -. Prendiamo il caso di una donna, che fisicamente non diresti mai che è una trans, in un reparto con altri uomini. Non sono preparati allo scegliere dove collocare queste persone, che magari si trovano ancora in una fase di limbo. C’è bisogno di salvaguardare la salute fisica e mentale delle persone”.

QUALCOSA, LENTAMENTE, SI MUOVE – I penitenziari italiani si stanno muovendo per risolvere al meglio questa situazione. A Sollicciano, in provincia di Firenze, sono state organizzate attività specifiche dedicate alla minoranza trans, di svago e recupero. Anche a Reggio Emilia qualcosa si sta muovendo verso una direzione più attenta alle esigenze delle persone trans. “Il carcere reggiano è entrato a far parte di un tavolo interregionale per l’abbattimento dell’omotransfobia, e la decisione molto forte che hanno preso è quella di creare una sezione dedicata alle persone trans“, descrive Nicolini. In Emilia Romagna al momento esiste uno spazio a loro dedicato a Rimini ricavato da un’area temporanea, ma l’intenzione è quella di crearne una apposita nel reggiano che vada incontro alle esigenze della popolazione trans. Per questo, nella città romagnola è organizzato dall’Arcigay Gioconda, in collaborazione con il Mit (Movimento italiano transessuale), il Comune e l’istituto penitenziario locale, un corso di formazione per preparare le guardie e i servizi medico-sociali alla gestione di una persona trans in modo rispettoso. “C’è tantissimo interesse a conoscere da parte loro –  spiega Rosario – soprattutto le guardie carcerarie si sono rese conto che non sono preparate sull’argomento”. Inoltre “un altro obiettivo sul quale stiamo ragionando come associazione è offrire un punto di accoglienza esterno al carcere dove la persona trans possa sentirsi se stessa“, racconta Nicolini. Offrire ai detenuti transgender un luogo fuori dalle mura dove recuperare spazi di libertà personali. “Una persona omosessuale o trans che in carcere non può vivere se stessa, nella sua mezza giornata libera anziché continuare a nascondersi per poter fare le sue cose, può venire in una sede aperta e trovarsi a suo agio per fare due chiacchiere con una persona amica prima di rientrare”, descrive il presidente. Il programma penitenziario infatti è volto al recupero, ma questo, già difficile, non può avvenire se il carcerato passa la sua detenzione in totale isolamento solo contando le ore che passano.

“Non sapremo mai probabilmente  – spiega Rosario – se il progetto è stato fatto a seguito di violenze ma sicuro perché dietro c’è una richiesta su qualcosa di impellente. Il rischio è lampante. Penso a me che sono ancora fisicamente una donna, però sono già anche un uomo e ho già fatto il cambio di documenti come uomo. Mi metterebbero in una sezione maschile. Non solo non dormirei neanche più un attimo, ma sono sicuro che se uno mi toccasse, io morirei. La mia vita sarebbe un inferno dal momento in cui mi mettono in una stanza con un altro uomo. Non riesco neanche a immaginare poi una possibile violenza. Ricordo il caso di una donna trans che aveva ancora i documenti al maschile ed è stata messa insieme agli altri uomini. Fu necessario un intervento legale che alzò un gran polverone.” Rosario si riferisce al caso di Tara Hudson, transgender 26enne inglese, che ha scontato tre mesi di reclusione in un carcere maschile di Bristol. Dopo la denuncia dei soprusi subiti dai detenuti uomini della sua sezione che la costringevano a spogliarelli con il terrore di essere violentata, la raccolta di 140.000 firme ha permesso il suo trasferimento ad una sezione femminile.

UN DOVERE UMANO – Non solo la condizione transgender ma anche l’omosessualità può essere motivo di soprusi. “Se hai già una fragilità, finché puoi la nascondi, ma i bulli erano già a scuola quando eri piccolo e i bulli grandi ci sono in carcere. Posso immaginare qualche mio amico gay, magari effeminato, che si trova in quel posto: tanto tempo libero e tanti spazi pericolosi. Non vorrei pensare male, ma sicuramente non ha vita facile. Non saprei come salvaguardare questa situazione, ma un inizio sarebbe creare più spazi divisi”, conclude Rosario. La problematica è attuale anche se ancora forse non se ne parla abbastanza: “Mi chiedi se penso sia necessario? Secondo me è d’obbligo. Nel senso che non voglio neanche pensare che non ci sia già questa cosa. Non voglio immaginare che una persona come me possa subire una violenza perché la legge non adegua la situazione. Se tu mi vedi e anche un bambino direbbe che sono una donna anche se ho i documenti al maschile, tu mi metti con le donne, perché io non voglio rischiare la vita. Non è solo necessario, è un dovere, è un obbligo adeguare le istituzioni in modo più umano possibile“.

 

di Giulia Moro e Jacopo Orlo

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